Regia di Roberto Benigni vedi scheda film
Passo falso del regista e attore toscano. La guerra di Benigni è una guerra di cartone, di scenografia usa e getta: stereotipi, macchiette, gag risibili e l’idea bizzarra che viene in mente allo spettatore medio è quella che, in odore di Oscar, qualcuno non si sia voluto sbilanciare eccessivamente nel dare giudizi sugli stermini di massa o addirittura sulle missioni umanitarie, qui annichilite e trasfigurate come fossero allegri campi vacanze. Per dirne un’altra, poi, Benigni non rende mai la moto al dottore: prima la usa per farne la battuta centrale dei trailer (‘senza benzina in Iraq! È il colmo’), poi la scaglia via in mezzo ad un generico deserto per correre a giocherellare con cammelli ed altri buffi animaletti da apposite gag. Le Fiat che pascolano per tutto il film sono un bel gesto verso un’azienda compatriota in crisi, già meno divertente è quello che dovrebbe essere il tormentone di questo film (quell’imprevedibile di Benigni, come saprete, con grande originalità mette una frase circa 40-45 volte in ogni film, per lasciarci almeno qualcosa al termine di esso): “non ricordo dove ho lasciato la macchina”. Boh. In tutto questo, quasi una sorpresa: Jean Reno. Sentito che il film si sarebbe svolto in Iraq, annusato l’odore di esplosioni – la caratteristica essenziale del suo cinema – l’attore francese si precipita a far parte del cast, con un ruolo non semplicemente marginale, quanto del tutto inutile. Infatti, alla vista di una Baghdad burlona e spensierata, dove si gioca a Twister con le mine e i soldati americani sono sagome bonaccione e compiacenti, Reno si impicca. E va capito.
Vittoria (Nicoletta Braschi), madre lesbica di due figlie adolescenti frutto di un passato da etero pentita; Attilio (indovina? Benigni!), effeminato ‘poeta’ (?) che con patetica ingenuità per entrambe le ore del film continua incessante a citare/parafrasare Dante nel dichiarare il proprio amore a Vittoria, sia essa in stato cosciente o vegetativo. Quindi, il lieto fine inevitabile.
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