Regia di Roberto Benigni vedi scheda film
Assistere ad una lezione sulla poesia d’amore è una cosa totalmente diversa dalla visione di un film, pur ammettendo la possibilità che, attraverso l’amore per il cinema e la poesia, ci si può inoltrare su strade parallele. Ma appunto: parallele, come le rette e i binari del treno, non s’incontrano mai. Proprio come La tigre e la neve di Benigni. Il bene-il male, la guerra-la pace, l’amore-l’odio, l’agnosticismo-il religioso, il Padre nostro-Allah…
Il protagonista del film, Attilio De Giovanni (forse il suo non è un caso che sia lo stesso nome del Bertolucci poeta) è un poeta desiderato dalle donne e simpatico a tutti. A sua volta, lui è un innamorato della poesia e di Vittoria, che però non corrisponde al suo amore. Per conquistarla, l’esuberante Attilio non esiterà a cacciarsi nelle situazioni più assurde e più comiche che porteranno la sfortunata coppia in Iraq, proprio all’inizio del conflitto con gli americani. Attilio, senza conoscere una sola parola di arabo, inizia così la sua guerra personale, armato solo di poesia.
La tigre e la neve è il film-monumento a Roberto Benigni, e su tutto quello che lui pensa o vuole noi si pensi di lui: autore di un cinema intriso di comicità e surrealismo, il poeta vate, amante di Dante soprattutto, il Pinocchio fallimentare, l’imbranato politichese, ma più di tutti l’adoratore di una donna tanto “gentile e onesta pare” (Nicoletta Braschi) che sarebbe bene (per il cinema prima e per Benigni poi) si dedicasse ad altro, ma non alla recitazione.
Pur riconoscendo la genialità di un artista a tutto tondo come Benigni, amato anche da Fellini, di lui ci piace ricordare la sua genuina e saggia comicità, accanto ad un altro mostro sacro, qual era Troisi. Ma si tratta di un passato che è fatto solo di corsi e non più ricorsi. Benigni dovrebbe ricordare meglio, a tal proposito, quello che affermava il grande Troisi: “La poesia non è di chi la scrive ma di chi la usa”. Se il tentativo di La tigre e la neve era in parte lo stesso di La vita è bella, (il tentativo di raccontare per vie trasversali il dramma della guerra con l’ambizione ed il senso della poesia), il risultato è decisamente più vicino a quello di Pinocchio, che a quello di La vita è bella. Anzi, a differenza di quest’ultimo, il protagonista del nuovo film sembra non vederla la guerra, pur accorgendosi della sua esistenza. Tutta la battaglia di Attilio sarà combattuta per salvare la vita della sola Vittoria, inoltrandosi su strade, tuguri, sottoscale, ecc., zeppi di feriti di guerra, per lui inesistenti. Non importa se le bombe cadono, la gente muore, le mine gli esplodono sotto i piedi, le medicine non ci sono (non a causa della guerra, ma per il blocco sancito contro l’Iraq di Saddam Hussein), il poeta amico Fuad muore suicida, ecc. Attilio è cieco d’egoismo e disinteresse, che colpisce e risulta come un pugno nello stomaco non solo per lo spettatore, ma per ognuno che ancora ci crede a quell’etica grazie alla quale i morti e i feriti di guerra non hanno nazionalità. E non ha senso vivere tale mancanza per poi rivolgersi a dio chiamandolo padre: padre di chi? Non ne parliamo di quanto piacere possa suscitare che un regista di grido come Benigni reciti il Padre nostro, pur consapevole di rivolgersi al dio Allah. Non avviene mai il contrario. Ma anche questa è saggezza legata alla possibilità che qualcuno “dall’alto” di questo mondo possa giudicare il film un capolavoro. Quel che più infastidisce del film sono i tentativi attraverso i quali il regista “toscanaccio” cerca, con molta fatica, a farci provare empatia per Attilio e per la sua amata. Non ci si emoziona che per pochissime scene, guarda caso proprio quelle in cui nessuno recita, ma alla sola vista di una città come Baghdad, che si vuole ricordare come la stessa delle “Mille e una notte”, pur avendo la visione reale di una città in frantumi. Straordinaria, invece, la fotografia di Fabio Cianchetti. Anche Piovani, autore delle musiche, in questo film sembra ormai un disco incantatosi sul tema de La vita è bella.
Perciò “questo straordinario talento impegnato a spargere buonumore e ottimismo” di cui parla Tullio Kezich fa impressione, se paragonato proprio a quei poeti citati bonariamente da Benigni (Ungaretti, Montale, Borges e Yourcenar) che, pur non spargendo buonumore e ottimismo, erano capaci di raccontare in versi la morte, la distruzione e la guerra, che difficilmente riescono ad illuminarci d’immenso, come Benigni, bonariamente vuol farci pensare.
Giancarlo Visitilli
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