Regia di Gaspar Noé vedi scheda film
Crudele, spiazzante, rigido, amaro, di una brutalità carnale e al contempo mentale: questi aggettivi troviamo nella descrizione di un film come Seul contre tous. Non c'è spazio per alcuna fiducia nel prossimo, nell'umanità, nelle leggi che regolano la società: la morale non esiste e, se vi si fa appello, è perché essa è stata creata unicamente per autorizzare il borghese ad arricchirsi alle spalle degli altri, la cui vita è invece disciplinata dalla miseria, dalla povertà, dalla penuria di ogni bene, dalla fatica nel tentare di andare avanti giorno dopo giorno senza ottimizzare mai la propria umile e sdegnosa condizione, senza mai ristabilirsi. Macellaio orfano, la vita del protagonista è profondamente segnata in termini dolorosi sin dall'inizio della sua esistenza, che può solo rafforzare indurendosi interiormente contro un mondo (e contro se stesso) che lo respinge; l'unica gioia è rappresentata dalla nascita della figlia, la cui madre defunta costringe il padre ad occuparsi di lei. La tragedia diventa allora del tutto grottesca: un equivoco causato dall'assenza di dialogo tra i due (la prima mestruazione interpretata come uno stupro) conduce il macellaio in carcere e la figlia in una casa-famiglia. Non resta che ricominciare daccapo, con un nuovo lavoro e una nuova donna ugualmente gravida in un paesino della Francia: un'esistenza che però ha vita breve poiché il tentativo di cancellare il passato fallisce, così come quello di rinchiudersi in una nuova gabbia da succube. La violenza incamerata da mentale diviene reale tramite l'atto brutale di picchiare la donna incinta, causandole un aborto spontaneo. La fuga da armato rappresenta così una prima ribellione ad un sistema ostile, una disobbedienza che porta il macellaio a tornare a Parigi in cerca di un lavoro per condurre una vita autonomamente, senza dipendere dagli altri che sono solo capaci di rinfacciare, rimproverare, ingabbiare. Tuttavia, anche questo desiderio si dilegua: gli amici del quartiere non possono aiutarlo a trovare un impiego, la crisi ha colpito tutti e non c'è posto per la generosità d'animo, per un altruismo disinteressato, ognuno deve avere un tornaconto personale e, se ciò non è più possibile, è irrealizzabile qualsiasi tipo di aiuto economico. I soldi, nel frattempo, si riducono notevolmente, bastano a malapena per nutrirsi; i debiti aumentano, l'affittuario comincia a reclamare il denaro per la stanza occupata: la degenerazione della situazione porta il protagonista alla decisione di usare le pallottole che gli rimangono nella pistola rubata per vendicarsi e mettere fine alla propria esistenza. Sembra essere questo l'unico modo per non concludere la propria vita da miserabile, per avere finalmente un riscatto: bang, bang, bang! Questi i tre ultimi colpi, i rumori assordanti di una morte gloriosa, per ribaltare tutto, sovvertire un sistema che d'altronde questo si merita poiché causa di tutto. Però, rimane una questione in sospeso, l'amore: cosa fare dell'affetto rimasto, dei sentimenti così forti nei confronti della figlia? Se non può aiutarla, renderla orfana significa infliggerle quello che a lui stesso è stato inflitto. No, non può essere questa la soluzione. Ecco allora cominciare il conto alla rovescia che preannuncia allo spettatore la visione di un'imminente scena di inconcepibile violenza, che solo apparentemente consente a chi guarda di andarsene per non assistere a ciò che sta per accadere. Naturalmente si tratta di un espediente che invece aumenta la suspense, il desiderio di vedere di cosa si tratta, che incolla ancora di più lo spettatore alla sedia: ed eccola, la violenza. L'uccisione della figlia, l'unico modo per salvarla, per non farla vivere nella miseria, da sola contro tutto e tutti. Mentre la uccide, però, il macellaio comprende che un conto è ammazzare un maiale, un conto un essere umano, e non uno qualunque, ma sua figlia. Deve farla finita, il dolore di vederla soffrire così è immenso. Ma in realtà non è successo proprio niente, tutta questa brutalità è stata solo mentale, e ripercorrendola proprio mentalmente appare chiaro che non è fattibile, né si desidera realmente farlo. Il macellaio preleva la figlia, la porta in quella stessa stanza in cui aveva fatto l'amore con la madre, e in un pianto liberatorio la abbraccia con una passione e un sentimento tali da ripetere esattamente ogni gesto. Le sue parole fuori campo esplicitamente affermano che è proprio la potenza di quest'amore illecito e promiscuo, anch'esso così carnale, da sovvertire realmente la morale, affermandone una propria, liberatoria, autentica perché basata sui propri desideri reali. Tuttavia, questo finale riesce a fatica a risultare convincente; infatti, non è né palpeggiando né sverginando la figlia che si afferma una nuova consapevolezza, anzi, non si fa altro che ripetersi nelle stesse modalità tutto il cinismo accumulato dal protagonista. Quest'atto non si configura come amore, ma come mero desiderio sessuale, che, una volta appagato, non porterà a nessuna nuova fiducia nel genere umano, a nessuna rinascita e nuova avvedutezza nell'affrontare la vita. Inoltre, come ha potuto farmi notare l'acutezza d'osservazione di un amico, queste continue voci fuori campo, che esternano ogni pensiero del protagonista, il flusso della sua coscienza, non fanno altro che rivelare quanto poco rilevante sia l'immagine, che, anzi, se isolata dalle parole non assume più alcuna funzione estetica. Sicuramente risulta interessante la visione del film, e la regia e la fotografia, così ugualmente ferme e crude, nette e incisive, sono coerenti con tutta l'impostazione della narrazione, ma, in linea di massima, la conclusione è del tutto vana, per nulla convincente, quasi fine a se stessa.
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