Regia di Carlo Ausino vedi scheda film
Il torinese Carlo Ausino ha esercitato il pieno controllo del film, a partire da regia e sceneggiatura, fino alla fotografia, guadagnandosi a pieno titolo quell’appellativo di “artigiano del cinema” che ben descrive le sue peculiarità. Artigianalità in un’accezione per nulla limitativa ma che, anzi, fa di questo film un piccolo gioiello.
Quando Torino era "Violenta".
Rivedere a distanza di quarant’anni dall’uscita nelle sale “Torino violenta”, un film mitizzato e così fortemente legato a un’epoca e a una città, poteva essere rischioso. Il cinema in questi pochi decenni è cambiato davvero molto, Torino ancor di più, e personalmente sono poco incline all’etichettatura d’ufficio di film che secondo i gusti di questo o quel critico, o della moda del momento, possono essere bollati sbrigativamente come “datati” o (in qualche caso anche peggio), capolavori cult.
E dunque, se la rivalutazione del poliziottesco all’italiana passata attraverso il ben noto sdoganamento tarantiniano merita rispetto, credo sia più giusto giudicare il film di Carlo Ausino per le sue specificità, uscendo da percorsi già noti che lo collocano sbrigativamente in una categoria eterogenea e dalle maglie fin troppo larghe.
“Torino violenta” è più poliziesco che poliziottesco. In primo luogo per la totale mancanza di quel particolare senso del “trucido”, marchio di fabbrica quasi immancabile nel pulp all’italiana; poi per il tratteggio dei personaggi, mai troppo calcati, ma costruiti con sensibilità e coerenza. Ma, soprattutto, per l’utilizzo funzionale delle sequenze più spettacolari, mai gratuito ed esasperato, grazie a una sceneggiatura equilibrata e senza eccessi.
Carlo Ausino ha esercitato il pieno controllo del film, a partire da regia e sceneggiatura, fino alla fotografia, guadagnandosi a pieno titolo quell’appellativo di “artigiano del cinema” che ben descrive le sue peculiarità. Artigianalità in un’accezione per nulla limitativa ma che, anzi, fa di questo film un piccolo gioiello molto più vicino ai primi film di Dario Argento che non a quella sterminata produzione di B-movie, di certo interessanti, ma spesso ripetitivi di quegli anni. Basti pensare al clamoroso carrello iniziale in una via Roma “americanizzata” dai neon notturni, attraversata sulle note composte da Stelvio Cipriani, fra i più grandi musicisti del cinema italiano di sempre. O alla magnifica fotografia che rende il film un prodotto tuttora apprezzabile e validissimo anche dal punto di vista prettamente visivo, anche grazie all’utilizzo dinamico della macchina da presa.
Ricorda Carlo Ausino: «Avevo preso spunto per la trama da quattro articoli apparsi sui giornali nel giro di pochi giorni. Quattro storie apparentemente slegate fra loro ma che avevo trovato interessanti dal punto di vista del racconto. Mi sono messo al lavoro e ne ho ricavato un’unica sceneggiatura. Dario Argento non era stato la fonte di ispirazione primaria per il mio film, anche se certo avevo apprezzato i suoi primi lavori dove, tra l’altro, la città di Torino era scenario inconsapevole delle vicende. Ho però fatto incetta di tutti i libri e i film del genere e accetto con piacere la definizione di “poliziesco” per il mio film. Per quanto riguarda invece le tecniche di linguaggio cinematografico che ho utilizzato, devo ammettere che ero in piena ricerca di un mio stile e cercavo di sfruttare al meglio le mie conoscenze nel mondo della fotografia. Gli zoom, ad esempio, non erano tanto ispirati dal cinema di Leone o Fulci quanto da un’esigenza artistica del momento finalizzata a raccontare meglio un’emozione o una dinamica narrativa. E l’utilizzo della macchina a mano nelle scene più dinamiche così come la simmetria in altre inquadrature (quella del judo per esempio n.d.r.) erano sempre funzionali al racconto, oltre che esteticamente necessarie. Per quanto riguarda la fotografia invece, sono molto orgoglioso del lavoro fatto. La mia esperienza di operatore era stata fondamentale e ancora oggi la frase per cui “il cinema è scrivere con la luce” mi trova totalmente d’accordo».
“Torino violenta” all’epoca riscosse un successo insperato (Ausino sottolinea, con molta onestà «ben al di là di ogni mia aspettativa»). Già, perché negli anni Settanta la strumentalizzazione era questione di un attimo, e in questo caso la critica aveva capito che il film non si posizionava politicamente, ma anzi manteneva un certo elegante distacco. Ricorda a tal proposito il regista: «Basterebbe ascoltare i dialoghi tra il commissario Danieli e il suo autista (“Non siamo nel Far West, lasciamo fare alla giustizia”) per comprendere come nella realtà metropolitana che ho voluto rappresentare non ci fosse spazio per i vendicatori solitari, nemmeno di fronte agli efferati omicidi pressoché quotidiani cui “la Legge” doveva fare fronte. Una realtà quotidiana che i miei coetanei ben ricordano, fatta di spaccio, ricatti, inseguimenti e sparatorie ma alla quale bisognava opporsi solo con la forza dello Stato alle spalle, senza soluzioni sbrigative né populiste. Per quanto riguarda la figura di Moretti, il Giustiziere, devo dire che la moda del momento era quella, ma ho cercato di approfondire le sue motivazioni e di abbinargli i contrappesi del suo “doppio” Danieli, Emmanuel Cannarsa, di cui avevo bisogno per attivare una dialettica narrativa».
Ma il film senz’altro più completo di Carlo Ausino è anche un piccolo gioiello per la scelta degli spazi urbani, dettagliati fino all’ossessione (spesso gli indirizzi vengono ripetuti e specificati con precisione degna dei romanzi di Fruttero e Lucentini), che creano una mappa mentale di una città che, evidentemente, il regista sente profondamente sua, e non ci stupiremmo se unendo i punti dei luoghi cittadini citati si dipanasse un enigma crittografato, alla stregua di Paul Auster nella sua “Trilogia di Manhattan”.
Ma senza arrivare a tanto, questo è certo, Ausino sembra tratteggiare un sottotesto fatto di luoghi cinematografici a lui cari. Come il cinema Ideal in cui si svolge la rapina nella sequenza di apertura. O i numerosi riferimenti a via Pomba, via del cinema Nazionale ovviamente, ma ancor di più storica strada del centro, sede di innumerevoli case di produzione e distribuzione, ormai scomparse quasi del tutto se non dalle memorie dei grandi vecchi del cinema torinese. E per finire la Galleria Subalpina, mitico sito del Cinema Romano, davanti alla quale, proprio sotto la finestra di Nietzsche in piazza Carlo Alberto, lo stesso Carlo Ausino viene ucciso durante una sparatoria in un’ironica e hitchcockiana comparsata. Insomma, l’operazione opposta di quell’altro grande omaggio alla città di Torino, “The Italian Job”, cui lo stesso Ausino aveva partecipato quasi un decennio prima come aiuto operatore (in particolare nella scena dell’inseguimento attraverso il Po), che nei suoi parossistici inseguimenti aveva deframmentato la città in un insieme di schegge irrazionali, trasformando l’identità del nostro capoluogo in una caotica e informale rappresentazione, spersonalizzante ed estremamente kitsch.
«Non posso che confermare. Ho girato in luoghi che conoscevo bene e mi sono allontanato dal centro solo per l’incidente d’auto. La sopraelevata di corso Grosseto mi sembrava adatta per visualizzare spazi architettonici da grande città, e per quanto riguarda l’incendio dell’auto mi sembra doveroso ricordare la collaborazione di un amico stuntman, Rino Moggio, grazie al quale la verosimiglianza degli incidenti ha raggiunto livelli molto soddisfacenti».
E che Torino violenta sia un’estensione esasperata delle passioni di Carlo Ausino, lo dimostrano le numerose sequenze ambientate nelle radio locali, nei nightclub, nei laboratori fotografici e negli atelier di moda. «È vero – confida – ero al mio primo film importante e dovevo sfruttare al meglio i miei mondi, le mie conoscenze e i miei contatti. Un po’ per esigenze produttive, ma soprattutto per descrivere le realtà che conoscevo meglio grazie ai molti amici che mi avevano aiutato in un progetto così ambizioso».
Un microcosmo cittadino, dunque, quello cui fa riferimento Carlo Ausino, profondamente legato alle frequentazioni e alle occupazioni professionali del regista più torinese di tutti, che se si fosse trasferito a Roma avrebbe certamente raggiunto maggiore notorietà ma, per come siamo fatti, avremmo finito per amare di meno.
Fabrizio Dividi
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