Regia di Robert Wise, Gunter Von Fritsch vedi scheda film
Premettiamo che la definizione di questo film come un horror sia riduttiva e (soprattutto) incompleta.
A dispetto del precedente “Il bacio della pantera” (1942), qui vengono abbandonati temi quali la metamorfosi e la sessualità.
Se il mondo immaginario che la protagonista si crea è sintomo di una “fuga dalla realtà” tipica dell’infanzia (così come altrettanto tipica di tale fase è la spiccata curiosità che spinge la bambina a conoscere ogni aspetto del mondo che la circonda), la voglia che essa ha di condividere questo suo “mondo immaginario” si concretizza nell’arrivo di Irena, rappresentativa della materializzazione del desiderio.
Se all’inizio ho specificato come non sia propriamente possibile parlare di horror è perché, contrariamente al film di Tourneur, il tono è qui più leggero: si tratta in fondo di una fiaba.
Nonostante ciò, i registi (Gunther von Fritsch sostituito da Robert Wise durante la lavorazione del film) non si dimenticano che stanno girando un film dell’orrore, e ciò lo dimostrano facendo propria la regola fondamentale del genere secondo la quale il terrore scaturisce dal “mostrare senza far vedere” (si veda la scena del primo arrivo di Irena quando Amy è in camera da letto, suggerito esclusivamente attraverso un’ombra e un’inquietante ninna nanna, nonché quella del primo ingresso di Amy nella casa delle due donne, dove un’inquadratura dall’alto sulla bambina suggerisce un senso di oppressione e minaccia).
Va infine citata tutta la sequenza finale dove la protagonista cerca Irena nel giardino innevato (ciliegina sulla torta, una geniale analogia tra la ruota del carro dove dovrebbe viaggiare il presunto “cavaliere senza testa” e quella dell’automobile).
A conti fatti quindi, un paragone con il film di Tourneur sarebbe fuori luogo e inappropriato, ma “Il giardino delle streghe”, grazie anche a una straordinaria fotografia e a un susseguirsi di atmosfere splendidamente oniriche, rimane un cult imprescindibile.
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