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Il dio nero e il diavolo biondo

Regia di Glauber Rocha vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il dio nero e il diavolo biondo

di (spopola) 1726792
8 stelle

L’oggetto artistico – e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto – crea un pubblico sensibile all’arte e capace di godimento estetico. La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto. (Carl Marx)

 

Il film

Partire da Marx per parlare di Rocha e del suo cinema non è assolutamente una provocazione, ma un elemento circostanziato e certo, dal quale è di difficile prescindere, indispensabile per inquadrare al meglio la sua breve ma intensa filmografia, tutta strettamente connessa con i miti e le tradizioni del suo popolo, ma che si allargherà in una fase successiva (indubbiamente meno creativa) alla osservazione delle “disfunzionalità sociali” degli atri paesi oppressi del cosiddetto “terzo mondo”. Un cinema il suo dove verità, immaginazione e militanza politica, si fondono fra loro con esiti indubbiamente poetici (e nelle opere più riuscite, molto suggestivi e affascinanti).

Il suo punto di vista (inteso come il particolare modo in cui disegna gli avvenimenti e presenta oggetti e personaggi) rende sempre vistosamente evidente la sua dichiarata posizione avversa a tutte le mercificazioni di quello che era solito definire come “le mistificazioni del sistema imperialista occidentale” (e in questo c’è davvero molto di Marx, e non solo), di cui Hollywood era la principale cinghia di trasmissione.

Nome adesso quasi sconosciuto e poco ricordato, è stato invece e indiscutibilmente il miglior regista brasiliano della sua generazione e anche il maggior esponente del cinema nôvo, movimento sorto in Brasile negli anni ’60 proprio come risposta collettiva dei cineasti dei paesi sfruttati e sottosviluppati, all’invasiva dittatura commerciale della cinematografica occidentale.

Sbaglierebbe però chi immaginasse il suo cinema delle origini come un pamphlet politico molto vicino al comizio (se questo in parte accadrà, succederà soltanto più tardi), poiché pur trattando temi socialmente “sensibili” ha sempre sviluppato il suo discorso con un’attenzione tutta particolare alla forma che lo ha portato a utilizzare un linguaggio molto innovativo e spiazzante, capace persino di creare meraviglia per le insolite soluzioni adottate (soprattutto per quel che riguarda appunto la parte iniziale - la più sorprendente e compiuta - del suo tormentato percorso artistico, quella che possiede una sua indiscussa unità che si può definire viscerale, primaria, implicita e tutt’altro che programmata a tavolino).

La sintesi di uno stile irripetibile insomma operata da un regista che credo sia davvero unico nella storia del cinema, che si esplicita nella molteplicità dei linguaggi, nelle inevitabili ambiguità e persino negli eccessi, ma comunque sempre finalizzata a una ricerca costante di verità che pur nel dissidio esistente fra teoria e risultato pratico dell’azione, si concretizza nella fusione perfetta dei vari piani narrativi e dei differenti codici di rappresentazione. Rocha è infatti colui che nell’ormai lontano 1972 fece scrivere a Giorgio Cremonini su Cinema Nuovo che probabilmente è stato il regista più significativo volto a una lotta di liberazione contro l’imperialismo insieme a Godard, Ivens e pochi altri, obiettivo che ha raggiunto utilizzando il lirismo e la poesia.

In effetti, Rocha possiede (o per meglio dire “possedeva” ai tempi in cui realizzò Il dio nero e il diavolo biondo che è indubbiamente non solo uno dei suoi capolavori in assoluto, ma anche l’opera che lo proiettò con prepotenza nel firmamento dei “grandi” della cinematografia mondiale, visto che poi, soprattutto dopo l’esilio dal Brasile – nel 1969 -, il suo percorso artistico è risultato invece abbastanza accidentato) una sua concretezza strutturale fatta anche di una meticolosa ricerca formale che sposta(va) le sue pellicole nelle vicinanze di un barocchismo quasi “delirante” (come è stato scritto a suo tempo da più parti), una inusuale modalità (soprattutto per quegli anni) di approccio e di svolgimento operativo delle storie, che portò inevitabilmente uno scompiglio profondo (per molti persino disturbante) all’interno dei moduli più tradizionali ai quali il regista intenzionalmente intendeva rifarsi, sia pure in chiave fortemente critica, e con l’intento di rovesciarli, demistificarli e personalizzarli: in altre parole, per reinventarli di sana pianta insomma.

Ma parlare di “barocco” e di “deliri” a mio avviso, al di là delle facili definizioni, delle comode etichette che servono semplicemente a ribadire con più forza un risultato già di per sé più che evidente e che non avrebbe alcun bisogno di ulteriori sottolineature, tanto risulta già preminente semplicemente affidandosi alla visione della sua opera, ha davvero poco senso, soprattutto oggi che il cinema ha fatto per fortuna molti passi avanti proprio in tale direzione e il barrocchismo delirante delle imamgini è diventata una costante molto frequentata.

In realtà, queste “peculiarità stilistiche” (se così vogliamo definirle), trovano una loro spiegazione (oltre che una precisa origine), nell’uso e nella coesistenza di simboli che hanno due diversi caratteri, di volta in volta variamente legati tra loro (ma in alcuni casi persino contrastanti) che possono essere riconducibili (e uso questi termini per comodità di definizione, pur riconoscendoli generici e imprecisi, sperando che risultino comunque abbastanza chiarificatori rispetto all’analisi che intendo fare) da un lato a una forma di rappresentazione decisamente “lirica”, dall’altro a un discorso fortemente “politico” (e politicizzato) del racconto.

Se questa premessa risulterà abbastanza leggibile (e soprattutto condivisibile) si potrà allora azzardare a dire che Il dio nero e il diavolo biondo è un’opera ancorata in partenza a una tradizione cinematografica di stampo narrativo che rimanda fortemente anche a Frantz Fanon (I dannarti della terra dicono qualcosa?), ma dove però l’ estetica del sottosviluppo (…) e l’ esaltazione della violenza che qui convergono magistralmente in un linguaggio frenetico e surriscaldato che riesce a fondere la poesia brutale del romanzo nordestino percorsa da grandi passioni e forze primordiali, con il dialettico meccanismo delle situazioni (il Morandini) prettamente politiche di un contesto non solo brasiliano, riescono a coagularsi in una materia “bollente” di indubbia e forte presa emozionale, senza per questo perdere nulla della sua veemenza (anche declamatoria).

Per Rocha non si trattava dunque di scoprire o di inventare, ma solo di rivelare, di usufruire, di inserire, risalendo alle fonti della tradizione popolare, poichè come direbbe Brecht, dire la verità non è sufficiente, non basta: affinché il messaggio sia davvero efficace, è necessario saperla esprimere in modo che quelli ai quali è indirizzata, la possano davvero capire fino in fondo, ed è proprio questo che lui prova a fare, a partire dal suo approccio dogmatico che riguarda il concetto stesso di “rivoluzione” tanto accarezzato in quegli anni (ma anche poco compreso) visto che purtroppo nemmeno dove ha trovato la sua pratica realizzazione, ha determinato un sostanziale cambiamento, anzi! poiché – e i fatti sono qui a confermarlo - le cose sono andate (e continuano ad andare ancora oggi) allo stesso modo o persino molto peggio, segno evidente che qualcosa non ha funzionato come avrebbe dovuto e sarebbe stato necessario.

Rocha era dunque portatore di una ricerca che anelava ad arrivare a una fase di liberazione nazionale che nel suo progetto teorico doveva realizzarsi anche attraverso il cinema (superare il sottosviluppo utilizzando i sui stessi mezzi – è una delle dichiarazioni programmatiche pronunciate dal regista in quel periodo): attratto come tanti della sua generazione dalla politica radicale, tentava di esplorare per renderli palesi, i legami esistenti (si potrebbero definire a doppio filo) fra i mutamenti storici e la violenza, affinché fosse finalmente chiaro a tutti cosa effettivamente significa “ribellarsi” e quanto sia importante nel farlo, porsi un obiettivo certo da raggiungere e da preservare.

 

 

Un’estetica della violenza, prima di essere primitiva, è rivoluzionaria (Glauber Rocha)

 

Raccontato con i tempi e i modi che rimandano alle ballate dei cantastorie, ilfilm non è però nemmeno e soltanto una fiaba narrata da un poetico giullare, poiché quello è solo il “mezzo” utilizzato per farla diventare una precisa testimonianza storica traslata in un linguaggio al tempo stesso “ popolare” e “dotto” (ed è probabilmente in questo che sta la sua unicità).

Come ho già accennato prima, parla in effetti di una realtà che non era (e non poteva essere) unico appannaggio della disastrata realtà brasiliana di quel periodo, comunque combattuta dal regista proprio dall’interno. Anche questo era insomma uno “strumento di lotta” che mirava a far diventare il suo lavoro un messaggio “indotto” sul controverso rapporto fra le classi che attribuiva a tutti i personaggi una valenza fortemente “simbolica”, certamente portata alle estreme conseguenze, ma mai unidimensionale, senza però mai perdere di vista l’obiettivo finale (la schematizzazione di una vicenda fatta in funzione di una possibile lettura “politica” degli accadimenti) e l’attendibilità narrativa di un percorso che pone da una parte la rappresentazione didascalica delle esperienze del popolo-Manuel che è il personaggio principale del racconto (la rivolta individuale, il misticismo impotente, l’anarchia dei cangaçeiros, la giustizia borghese come intervento paternalistico da subire ma anche quasi da “desiderare”) e dall’altra lo straordinario, iconico utilizzo di una ambientazione non soltanto precisa, ma anche particolarmente significante (il sertão[1], appunto, l’ideale campo di battaglia per esplicitare quello che era il manifesto del cinema nôvo, indispensabile per rendere palese – e inesorabile – il fatto che la più nobile manifestazione culturale della fame è la violenza – Glauber Rocha): l’“estetica della fame” insomma.

Credere in qualcosa comunque, non significa certo per Rocha aver risolto tutto; significa al contrario possedere qualcosa di grezzo su cui lavorare che stimola domande e suggerisce proposte operative finalizzate al cambiamento.

Non a caso, tenendo proprio conto di questa linea (vero e proprio suo modus operandi), nel finale, il concetto di liberazione viene totalmente affidato al mare, che è davvero l’opposto (ma non è una contraddizione, tutt’altro) della terra e del sertão:

 

Il sertão diventa mare

Il mare diventa sertão.

Ecco qui la mia storia

Verità, fantasia

Spero ne abbiate tratto una lezione

Questo mondo è sbagliato

La terra è dell’uomo

Non di Dio né del Diavolo.

 

Con Il dio nero e il diavolo biondo, ambientato nel nord-est del Brasile, considerato in quegli anni il centro della fame della sua nazione, Rocha segue dunque il tracciato della siccità che inaridisce quella terra, attraverso una coppia di contadini alla ricerca della loro liberazione, quasi un viaggio iniziatico scandito da due incontri nodali, il primo con un santone nero, il secondo con un bandito biondo.

Nel film appare anche quel personaggio epico-popolar-poetico che risponde al nome di Antonio das Mortes che sarà poi il protagonista del film omonimo in un’altra e più composita, successiva definizione altrettanto poetica della realtà agraria brasiliana, dove sarà ancora più evidente l’importanza che il regista dà alla cultura popolare, considerata come l’espressione più alta della lotta contro l’oppressione e lo sfruttamento degli uomini.

Si comincia insomma già qui a intravedere il senso e l’importanza di una delle più evidenti ambiguità del cinema di Rocha, quel “dissidio” fra fantasie e verità, che affiorerà molto più esplicitamente in Terra in trance (1967) dove il regista andando oltre il piano puramente cinematografico della messa in scena, si concentrerà su tutta una serie di elementi critici nei confronti degli errori politici che portarono quella nazione al colpo di stato del 1964, talmente tanti, da rendere il film proprio per la sua eccedenza di contenuti, tutto risolto “sopra le righe”, se così si può dire (i denigratori – e ce ne sono stati - hanno anche aggiunto “contorto” e “aggrovigliato”), ma forse proprio per questo tanto più vivo e ricco di fantasia. Si pensi al finale, per esempio, all’iterazione della morte-liberazione del suo protagonista, Paulo Martin, perfetta, riuscitissima fusione della duplicità simbolistica di tutte le precedenti opere di Rocha (compreso questo Il dio nero e il diavolo biondo), e in Terra in trance risolta (figurativamente) attraverso l’esaltazione dello stesso simbolo, sia sul piano lirico (il mitra imbracciato contro un fondo bianco, quasi una visione onirica nel suo contrasto con i chiaroscuri precedenti) che nell’accezione più politica che l’arma evoca (la rivoluzione come superamento dell’ambiguità intellettuale poesia-politica - Giorgio Cremonini): è soprattutto, in questa sequenza che si evidenzia il più vero e profondo significato di una polarità stilistica non occasionale, tesa principalmente a mediare proprio attraverso l’invenzione artistica, il messaggio fortemente rivoluzionario di tutta la sua opera.

I film di Rocha parlano insomma del popolo per il popolo, del Brasile per il Brasile, del Terzo mondo per il Terzo mondo, e in questa prima fase del suo lavoro allora il sertão non poteva che essere centrale, vero fil rouge connettivo che approderà appunto al più controverso e maturo risultato di Terra in trance, e si svilupperà più compiutamente in Antonio das Mortes dove c’è anche l’interessante approccio al colore strenuamente difeso dal regista (la versione italiana della pellicola fu così scandalosamente oltraggiata e manomessa, che non può essere presa in considerazione perché non fa assolutamente testo: amputata di ben 12 minuti, ha dovuto subire lo spostamento arbitrario di alcune musiche e addirittura persino l’alterazione cromatica dei colori).

Un ruolo che sarà successivamente ereditato da altri martoriati territori come il Congo del meno riuscito e poco risolto Il leone a sette teste (discutibile spostamento verso lo scivoloso terreno del cinema epico-didiattico, dove però in questo caso per il regista purtroppo didattica sta solo per informazione, ed epica per agitazione) realizzato durante la sua abbastanza breve permanenza in Italia che lo vide collaborare anche con Carmelo Bene.

 

Girato in un bianco e nero arido, quasi bruciato dal calore, Il diavolo nero e il dio biondo è un susseguirsi di rapidi movimenti (l’uso frequente, quasi sistematico - e in alcuni momenti addirittura sconvolgente - della macchina a mano, è l’ideale per sottolineare con le sue “necessarie” imperfezioni di ripresa, la drammaticità di quella realtà degradata dalla miseria e dai soprusi, dallo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo che le aberranti condizioni di vita del Nordeste brasiliano mettono in evidenza). Il tutto, esaltato da un montaggio estremamente dinamico e da una suggestiva colonna sonora dove i rumori del vento, delle grida e degli spari si sovrappongono sovente alla musica di Villa Lobos (integrata peraltro dalle molte canzoni cantate dal cantastorie scritte dallo stesso Rocha che contribuiscono a rendere palesi le influenze perniciose di una religiosità mistica e violenta e a coniugarle con le tradizioni barocche della cultura popolare del paese). Tre elementi fondamentali (movimenti di macchina, montaggio, utilizzo del sonoro) che affascinarono la critica (soprattutto quella europea) insieme allo stile e all’insolita forma rappresentativa che lasciò invece sconcertato qualche spettatore (non certo indifferente però) in parte disturbato dal tono populista e finto-ingenuo utilizzato e dall’evidente ossessione del regista di scompaginare ciò che è ordinato, per definire questo nuovo stile narrativo (il Mereghetti).

Ovviamente io sono di tutt’altro avviso, poiché credo che siano proprio queste le caratteristiche che hanno contrassegnato tutto il “cinema novo” brasiliano dei primi anni ’60 nel tentativo di farlo diventare un cinema storico-politico attingendo non al consueto folclore, ma alle radici della cultura nazionale e impiegando quel linguaggio favolistico che si suppone eserciti una forte suggestione sul pubblico (e Rocha è indubbiamente l’autore che meglio di ogni altro - e fra tutti, anche il più lucido e immaginifico - ha saputo interpretare e rendere empatica questa esigenza).

Raccontando la storia di un contadino che si dà alla macchia dopo aver ucciso un proprietario terriero disonesto, il film si scaglia dunque contro l’annientamento della cultura indigena brasiliana e l’emarginazione dei poveri.

Bellissima (e metaforicamente azzeccata e pertinente) la sequenza in cui Manuel con una enorme pietra sulla testa scala lentamente e con immane fatica la montagna mistica: Rocha stacca su una scena di estasi, forse nel corso di un’eclissi, in cui qualcuno grida: il sole è d’oro mentre la moglie di Manuel si contorce come se fosse posseduta e, in silenzio, il dio nero uccide con un coltello la loro bambina e con il sangue le traccia una croce sulla fronte come elemento finale di “salvezza”.

Il cinema politico è spesso rigoroso, allergico agli eccessi, ma il furore iconoclasta di Rocha non era certamente in grado di piegarsi al contenimento della “misura”, come dimostra molto bene una scena come questa: la sua era una collera da Antico Testamento che, unita a un inimitabile talento registico, riesce a dare vita a un qualcosa che sembra essere una via di mezzo tra Sentieri selvaggi –la sua antica passione per il cinema western – e Ivan il Terribile di Ejizen?tejn (Mark Cousins): a tale riguardo, si racconta – e non credo proprio che si tratti di una leggenda - che dopo una delle prime proiezioni della pellicola, un critico brasiliano abbia esclamato: “O mio Dio, Ejizen?tejn è rinato… ed è brasiliano!”

 

Il dio nero e il diavolo biondo è un film realizzato in assoluta povertà, e che proprio per questo suo essere francescano nei mezzi, è al contrario un vero e proprio capolavoro per la ricchezza delle invenzioni, e la forte carica di drammatica emotività che trasmette (soprattutto attraverso il personaggio di Rosa) capace com’è di rendere evidente allo stesso tempo i debiti che ha verso il western e la lezione Eisensteniana a cui fa riferimento Mark Cousins (soprattutto Sciopero e ciò che ci è rimasto di veramente autentico del suo Que viva Mexico) ma senza però escludere a priori il Buñuel ricordato anche da @Sasso nella sua recensione, e persino Rossellini: alcuni personaggi sono realmente esistiti nota Cinzia Bellumori – e l’analisi storica condotta attraverso le vicende dei protagonisti del racconto è rigorosa e lucida. E’ la storia del Brasile come di ogni altro paese sottosviluppato, alla ricerca di se stesso, attraverso le varie forme di alienazione che distinguono i diversi momenti storici. Per svilupparla Rocha non impiega strumenti intellettualistici (…) ma scava nella storia del suo paese ricavandone quegli elementi significativi che possono essere accolti da un pubblico più vasto.

 

La storia (attenzione: SPOILER)

Siamo intorno agli anni ’40 del secolo scorso.

Un romanceiro cieco canta una storia di verità e di immaginazione: la storia di Dio e il Diavolo nel sertão che ha per protagonista Manuel, un contadino che vive nella miseria con sua moglie Rosa e la vecchia madre. Il lavoro dà appena di che sfamarsi, il bestiame muore per la siccità. In una situazione simile, anche i rapporti umani diventano difficili. Un giorno l’uomo, mentre gira a cavallo, incontra il beato Sebastião con i suoi fedeli che gli preannuncia un miracolo che risolleverà le sorti della gente di quel territorio desolato (un grande cambiamento che trasformerà il mare in terra e in terra il mare)..

Stressato dalle angherie e dalla fame, Manuel dopo aver ucciso il suo violento datore di lavoro e esser riuscito a sfuggire alla vendetta dei tre jagunços del padrone (che comunque gli uccidono la madre), con la speranza di lasciarsi alle spalle miseria e sfruttamento, si unisce insieme alla moglie alla banda dell’ambiguo santone e lo segue a Monte Santo dove vive la sua comunità.

Fa intanto apparizione sulla scena Antonio das Mortes, sicario al soldo dei proprietari terrieri e della Chiesa col compito di uccidere tutti i “beati” e i “cangaçeiros” (controversa figura che fa anche giustizia delle rivolte sbagliate, vero e proprio portatore di un alone di morte che per i diseredati è anche segno tangibile di liberazione).

Dopo che Rosa per una serie di circostanze che credo sia meglio non rivelare, ha ucciso il santone pugnalandolo alle spalle, Miguel prenderà il suo posto assumendo il nome di Satanas. Usciti indenni dall’assalto di Antonio das Mortes che stermina tutta la comunità, i due riprendono il loro girovagare nel sertão fra stupri, assassinii, e vendette personali in compagnia del cantastorie cieco, ed è a questo punto che si imbatteranno in Corisco, il “diavolo biondo”, una figura di bandito appartenente alla tradizione brasiliana che per certi aspetti, anche se in maniera più controversa, può ricordare la leggendaria figura di Robin Hood e con cui Rosa tradirà il marito.

Di nuovo arriva sulla scena Antonio mentre Rosa e Corisco stanno facendo all’amore, ed è di nuovo strage: Corisco viene catturato e Rosa e suo marito riprendo a fuggire come impazziti.

Il finale è aperto, con Manuel che continua a correre nel sertão e verso il mare,mentre il cantastorie con la sua ultima ballata spiega che il mondo non è né di Dio né del Diavolo, ma dell’uomo.

 

Il regista

Glauber Rocha (14 marzo1939 – 22 agosto 1981), originario di Bahia, lo stato del Nordeste, culla storica della cultura afrobrasiliana, è stato indiscutibilmente il miglior regista brasiliano della sua generazione. Rocha crebbe affascinato dal misticismo e dai western americani che segnarono la sua formazione giovanile. Intorno ai vent’anni, si trasferì a Rio de Janeiro per studiare diritto ed entrò a far parte di un circolo di giovani cinefili che poi avrebbero dato vita alla corrente del cinema nôvo della quale diventerà il maggiore esponente.

Prima di intraprendere l’attività di regista, si è interessato di teatro e ha lavorato come giornalista e critico cinematografico presso periodici come “Mapa”, “Angulos”, “O momento” e “7 dias”.

Dopo un tentativo operato nel cinema prettamente d’avanguardia (Patio)e un documentario (A cruz na praça), nel 1962, e quindi all’età di 23 anni, riuscirà finalmente a realizzare il suo primo “vero” lungometraggio (Barravento, analisi antropologica sensibile e partecipata della vita di una comunità di pescatori brasiliani) e a pubblicare il saggio Revisao critica do cinema brasileiro.

Nel 1964 girerà questo Deus e o Diablo na terra do sol (Il dio nero e il diavolo biondo), che con il suo possente lirismo e la violenta esasperazione sociale del racconto, lo impose con prepotenza sulla scena internazionale e che ad oggi resta fra i suoi maggiori risultati artistici, insieme agli altrettanto pregevoli Terra em transe (Terra in trance), un nuovo appassionante capitolo sulla realtà politica latino-americana girato nel 1967 nel quale permane tutta la funzionalità emblematica dei personaggi, sviluppata però con una accresciuta ricchezza psicologica e dove il sertão, dilatato oltre i suoi limiti geografici, viene elevato a concetto vero e proprio, e O Dragão da maldade contra o Santo Guerreiro (Antonio das Mortes), 1969 premio alla regia al Festival di Cannes e ultimo film che il regista riuscirà a girare in patria, sfidando con baldanza la censura delle autorità militari).

Il 1969 è un anno tragico per lui, quello che segnerà (anche in negativo) tutta la sua successiva produzione. E’ infatti l’anno in cui a causa della situazione politica diventata insostenibile e di una censura sempre più opprimente che di fatto gli stava impedendo di svolgere un’attività davvero poco gradito ai militari) sarà costretto a espatriare e a diventare errabondo esule in giro per il mondo, diviso fra Europa e Africa, e smarrendo così – lontano dal Brasile - una parte importante della sua ispirazione primaria, frustrata dagli eventi.

Dopo la parentesi italo-africana de Il leone a sette teste (1970) e Cabezas cirtadas (Teste tagliate) girato in Spagna nel 1971, realizzerà ancora (ma con una vena creativa molto affievolita) opere come Câncer(1972) il didascalico História do Brazil sulla colonizzazione spagnola e portoghese del Brasile (1973), Claro(1975), Di Cavalcanti(1977), Jorge Amado no cinema(1979), A Idade da terra(1980) dei quali però qui in Italia abbiano scarsa (quasi nulla) conoscenza.

La morte lo coglierà davvero molto presto (nel 1981 appunto) quando aveva solo 42 anni.

 

 

[1] Il sertão (plurale sertões, parola ereditata dalla lingua portoghese e probabilmente derivata da desertão = grande deserto) è una regione semi-arida che abbraccia molti stati del nord est brasiliano: Bahia, Sergipe, Alagoas, Pernambuco, Paraíba, Rio Grande do Norte, Piaubí, Ceará e la parte nord dello Stato di Minias Gerais, composta principalmente da bassopiani (la maggior parte dei suoi territori si trova a un’altitudine media compresa tra i 200 e i 500 metri sul livello del mare).

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