Regia di David W. Griffith vedi scheda film
Qualcuno ha definito questo film una “patetica storia al limite del languore romantico da letteratura popolare”, ma con qualcosa di shakespeariano dentro che ne nobilita la portata e l’impatto, poiché riesce a trasformare la tenerezza e la dolcezza nei suoi esatti opposti: la violenza e la rabbia. Indubbiamente un titolo da annoverare fra i capolavori assoluti di Griffith, (certamente il più perfetto ed equilibrato - e forse anche il più appassionante - fra quelli da lui realizzati) giustamente celebrato per le vibranti e movimentate scene d’azione e per il montaggio alternato delle sequenze (una modalità di costruzione questa tipicamente griffitthiana), l’uso della luce, la recitazione e l’ambientazione scenografica, elementi fortemente innovativi, questi, che hanno contribuito a far compiere al cinema dei veri e propri passi da gigante verso la maturità espressiva del “linguaggio del muto”.
La storia, desunta dal racconto The Chink and the Child di Thomas Burke (un dramma di stampo vittoriano tanto pompato nel suo patetismo, quanto sorretto da uno stile sempre controllato e rigoroso privo di smagliature e – quando necessario – incalzante nella sua progressione drammatica verso la tragedia, imposto dal regista), è quella tipica dell’eterna lotta del bene contro il male e del bello contrapposto al brutto, che poi è anche il contrasto che definisce e determina naturalmente la scelta del tono stesso del film, quello di un ritmo lento al quale se ne oppone a tratti un altro molto più rapido. Il disordine dell’azione brutale e del crimine, sarà così reso più profondamente tangibile di fronte all’armoniosa bellezza del sogno e dell’amore che questa volta non riuscirà a trionfare. E in effetti il film sembra non voler risparmiare nessun colpo basso allo spettatore, dalla povertà dell’ambiente londinese dove è collocata la storia, all’amore puro e rispettoso che il cinese ha per la piccola ragazza bianca che ha preso sotto la sua ala protettrice, alla depravazione fisica e morale di chi è invece fallito come padre e pugile,(ma, come ben osserva Lourcelles, “è proprio dall’uso sistematico delle situazioni forti che nasce una poesia disperata e quasi selvaggia che sa andare molto oltre le frontiere del melodramma e ne nobilita il risultato).
Broken Blossom (questo è il titolo originale dell’opera) è in pratica e a suo modo anche un dramma sociale (nel quale si avvertono gli influssi influenzativi dei film danesi dell’epoca, densi di enfasi e di annotazioni psicologiche) che trae spunto da una moda giornalistica che in quegli anni si occupava con assidua morbosità di scandali familiari (e di questi qui ce ne sono profusi a iosa) dando loro ampio risalto e altrettanta risonanza.
Giglio infranto rappresenta in ogni caso “il prototipo” tipico del prodotto hollywoodiano di successo, qui giunto a una sua precipua maturità spettacolare che definisce una nuova estetica cinematografica capace di influenzare non solo il cinema di quella nazione, ma anche quello degli altri paesi emergenti in questo campo, Unione Sovietica compresa (ed Ejzenštejn non nascose mai il debito contratto da lui e dai suoi colleghi proprio verso le straordinarie innovazioni tecnico-linguistiche delle opere di Griffith).
Svenevole e persino “sgradevole” quanto si vuole insomma (i personaggi sono certamente di maniera) ma sorretto da una costruzione, un ritmo e una freschezza di linguaggio capaci (a giusta ragione) di entusiasmare la critica dell’epoca che contribuì non poco allo strepitoso successo anche di cassetta di questo titolo fondamentale nella storia del cinema: girato in soli 18 giorni (ma preceduto da 6 settimane di preparazione), costò poco meno di 90.000 dollari e ne incassò quasi un milione… cifra davvero ragguardevole per il 1919. I suoi assi nella manica sono spesso gli appassionanti momenti di alta e intensa drammaticità. Si pensi ad esempio alle scene perfette del match di boxe, con la muta ammirazione del cinese nei confronti della ragazza da lui soccorsa e che ha agghindato come un idolo da adorare, o al finale - bellissimo - con la Gish terrorizzata e frenetica, nascosta in un armadio che il boxeur sfonda a colpi d’ascia per poi uccidere la fanciulla a suon di botte col manico di una frusta.
Altrettanto straordinaria la prova degli attori (un sobrio ed introverso Richard Barthelmess che regge sulle sue spalle l’intero peso della “degradazione violenta di quella povertà infinita” e fornisce un ritratto veritiero del fallimento e della dedizione assoluta, e soprattutto una tenera e straziata Lillian Gish capace, con oltre un decennio in più sulle sue spalle, di impersonare e rendere credibile con i suoi abbandoni lirici e la mobile espressività facciale tormentata e affranta, le palpitazioni e i fremiti di una tredicenne. La sua resa è davvero eccezionale (e la scena in cui finge di sorridere alzando con due dita a V gli angoli delle labbra, diventata giustamente famosa). Forse leggermente sopra le righe Donald Crisp (il pugile) che non riesce ad essere calibrato come sarebbe necessario e che rappresenta probabilmente l’unico effettivo “neo” del film (un difetto comunque veniale facilmente perdonabile nell’economia generale dell’opera).
In un povero quartiere londinese, un cinese, il cui unico ideale fallito è quello di convertire l’Occidente alla sua religione, accoglie con casto amore un giovane fanciulla perseguitata dal padre. Fra i due nasce un’intesa di reciproco aiuto, assolutamente pura. L’orientale protegge la fanciulla divinizzandola in una sorta di paradiso artificiale di ridotte dimensioni In cambio, la ragazza gli offre l’innocenza della sua giovane età. Dopo un’ennesima sconfitta, il pugile dopo aver scoperto il logo in cui è nascosta la figlia, approfittando dell’assenza dekìl pugili, tornerà a riprendersela e la riporterà a casa per scaricare di nuovo su di lei la furia delle sue frustrazioni, riempiendola di botte fino ad ucciderla. Stravolto, il cinese arriverà troppo tardi, e non gli resterà altro da far che ammazzare l’assassino, Poi si ritirerà nel tempietto distrutto della sua amica per togliersi la vita.
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