Regia di Sam Peckinpah vedi scheda film
A Doc McCoy (Steve McQueen) hanno negato la scarcerazione anticipata per buona condotta. Ma lui non ne può più della galera ed è disposto a tutto pur di uscirne. Anche ad accettare di fare una rapina per conto di Jack Benyon (Ben Johnson), un influente uomo d’affari che con i suoi aggangi politici può farlo uscire di galera prima del previsto. Anche a consentire alla moglie Carol (Ali McGraw) di intavolare le trattative dell’operazione nel modo che più conviene al potente Jack Benyon. Doc è libero, per la concordata rapina alla banca gli vengono affiancati due esperti nel settore, Rudy Butler (Al Lettieri) e Frank Jackson (Bo Hopkins). Il bottino è nelle mani dei banditi, ma ci scappa qualche morto di troppo e ci sono delle bugie che complicano ulteriormente le cose. L’inevitabile epilogo è la fuga verso il Messico dei due consorti e la rincorsa assatanata al bottino di tutti gli altri rimasti in vita.
“Getaway” (ispirato al romanzo omonimo di Jim Thompson e sceneggiato da Walter Hill) è un “western metropolitano” tutto giocato secondo lo schema classico della rapina, l'inganno, la fuga relativa e il conseguente inseguimento, ma investendo più sulla sensazione di disincanto che si ricava dall’esibita esplosione della violenza che sulla sua mera spettacolarizzazione. E’ un film di Sam Pekinpah insomma, dove al posto dei cavalli che scorazzano per gli sterminati territori del west ci sono le auto fumanti che si rincorrono lungo le strade di città inospitali, al posto di occhi temerari che si incrociano nello scontro corpo a corpo ci sono occhiali che celano le vigliacche strategie dell’inganno. Nel cinema di Pekinpah, se identiche sono la tendenza a guardarsi alle spalle e la sensazione di sentirsi perennemente braccati, diverso può unicamente essere la morfologia territoriale dove vanno ad innestarsi i germi produttivi dell’inesauribile voracità del male e la concitata esposizione della violenza istintiva. Tutta la prima parte del film è magistrale, quella che fa perno sulla figura di Doc McCoy che, nel mentre svolge le sue mansioni carcerarie, si perde nei dolci ricordi di una trascorsa libertà. Le immagini si susseguono febbrili, con un alternanza quasi rabbiosa, come a voler sottolineare con forza, sia l’idea di una scarcerazione da ottenere ad ogni costo, che l’ossessione per un attesa che potrebbe notevolmente accorciarsi. Fino al ricongiungimento “carnale” con la bellissima Carol, passando per una tenerezza appena accennata e una voglia di sesso ancora timida. Il loro amore è la pietra angolare del film, se da un lato mostra di essere l’unico elemento capace di mitigare l’esplosione di violenza che gli ronza intorno, dall’altro lato sembra esso stesso matrice di una tensione latente, per quel suo oscillare tra una sincera e profonda adesione sentimentale e una palpabile diffidenza sulla realtà effettiva delle rispettive intenzioni. L’idea del tradimento cova sotto le ceneri di un’assenza troppo lunga e il sospetto di essere stati incomprensibilmente sfruttati affievolisce la vicendevole fiducia. Sam Pekinpah chiarisce subito le sue pessimistiche intenzioni e rende giustificabili i compromessi accettati da Doc per veicolare l’idea che mai la libertà potrà affrancarsi dal ricatto sociale della legge del più forte. La sua regia si impossessa subito del film, con programmata decisione, usando gli attori (e che attori) per la messinscena della sua poetica del disincanto. L’accordo tra uomini di conclamata umaralità è parente molto stretto all’inganno e questo, oltre ad acuire la sete di possesso intorno alla malsana intenzione di non voler dividere il bottino con nessuno, può trasformare l’illusione di bastare a se stesso una volta che si è usciti dalle quattro mura di una galera nella rischiosa costatazione di essersi spostati solo in una prigione più grande. E’ indubbio che la parte finale del film ci consegna un furgoncino in fuga che apre sipari inaspettati alla speranza di chissà quali scenari futuri, c'è un amore che può lasciarsi alle spalle ogni sospetto e c'è la vita che deve correre più in fretta. Ma è vero anche che una fuga che continua non è una fuga che finisce. E che l’odore del sangue non va mai via. Un altro grande film di Sam Pekinpah, lirico e maledetto.
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