Regia di Stuart Gordon vedi scheda film
David Mamet, raffinato genio della parola, presta la sua pièce teatrale ad un nume dell’horror anni ’80-’90 come Stuart Gordon. Sembrerebbe che il testo di Mamet, del 1982 (epoca che da poco abbandonava i ’70 e che a breve avrebbe abbracciato l’edonismo, il culto del corpo, Swarzenegger e Regan), ben si adatti ad un film “nero”, sospeso tra incubo fisico metropolitano e onirico viaggio dialettico tra temi assoluti e senza risposte. L’uomo Macy si dibatte sulla sua identità. Sul suo essere in quel preciso luogo e in quel preciso tempo, che non è più l’82. Credo che il film, breve e sintetico come un exemplum, sia altrettanto efficace. Sia perchè la prova di William H. Macy è grandiosa agli occhi di chi è attore, sia perchè il film non lesina in irriverenze e invettive scorrette. C’è purtroppo chi oggi crede che “urlare” sia inutile, poco stiloso, becero, inefficace. Io, invece, credo ancora nella gratuità della violenza sullo schermo, e alla pornografia mostrata senza retorica e senza intellettualismi. Credo che tutto questo valga per salvare il sedato spettatore da morte certa, la morte identitaria del suo essere. Una morte che Macy non riesce ad evitare, pur continuando a vivere, perchè tutto è fallo. Tutto è sbaglio e tutto è uomo (fallo, appunto). Nella sua chiusa carceraria, il film apre a scenari nuovi, un po’ ribaltando le prospettive un po’ cercando di tirare le somme. Se il lavoro di Gordon, e quello di Mamet attualizzato, non sono vere chicche sovversive, vuoi per linguaggio, verbosità, inconcludenza delle tensioni, resta comunque un film “arrabbiato”, che una volta visto ti piacerebbe uscire anche a te nell’inferno metropolitano, sorta di dantesco mondo ripetuto nel nostro di oggi (come il classico moderno da cui questa “discesa dantesca” diventa topos, ovvero il “Luces de Bohémia” di Valle-Inclán), e reagire serenamente ai soprusi della società omologata, generatrice di guerre e repressioni collettive.
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