Regia di John Turturro vedi scheda film
Romance & Cigarettes |
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di John Turturro (2004)
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Ammettiamolo: la biografia di ciascuno di noi (anche di quelli che più se la tirano) può benissimo essere raccontata con una manciata di canzonette.
Provate a pensarci, smorzando i pregiudizi ipercritici, e scoprirete che ogni stagione della vostra esistenza (infanzia, fanciullezza, adolescenza,…) può essere evocata da una canzone; che ogni momento cruciale della vostra vita (infatuazione, delusione amorosa, conquista, abbandono,…) è già stato descritto con sorprendente efficacia da un cantautore; che ogni vostra vecchia fotografia può trovare la sua esatta colonna sonora in un pezzo dell’infinito repertorio della musica (cosiddetta) leggera.
Come spiegare altrimenti l’effetto suggestivo (a volte accompagnato da struggente nostalgia) provocato dall’ascolto, anche casuale, di un certo refrain? Come spiegare lo spiazzamento (la delocalizzazione spazio-temporale) determinata da un certo gaglioffo ritornello sepolto nella memoria?
Turturro conosce alla perfezione questi meccanismi, amando senza riserve la musica popolare (il suo film, Passione, del 2010, lo dimostra ampiamente e – appunto – appassionatamente); e su questi meccanismi imposta il racconto di una passeggera (ma non banale) crisi matrimoniale.
Nick Murder (James Gandolfini) è un corpulento operaio che, pur essendo sposato da diversi anni con l’energica Kitty (Susan Sarandon) e avendo per casa tre figlie adolescenti inquiete ed rockettare, è invischiato in un’impetuosa tresca con la focosa Tula (una disinibita, e rossa, Kate Winslet). Il triangolo proletario viene alla luce e Nick è costretto a scegliere fra l’amante che gli spiana la strada con tutte le sue procacissime armi di seduzione e la moglie che gliele ostruisce con i suoi rancorosi orgogli.
Il film, che non è un film musicale, è punteggiato da canzoni famose (c’è perfino Quando m’innamoro, cantata da Anna Identici, e Delilah di Tom Jones; ma non mancano brani popolarissimi di James Brown, Elvis Presley e Bruce Springsteen). Spesso le canzoni sono canticchiate sopra-traccia dai diversi personaggi; ogni tanto si assiste anche a dei goffi balletti improvvisati da passanti o da vicini di casa; perfino i dialoghi sono farciti di citazioni che richiamano titoli o testi di canzoni.
Ma le venature grottesche, la trama confusa (come i sentimenti rappresentati, del resto), le situazioni e gli ingranaggi un po’ bislacchi (i fratelli Coen sono fra i produttori, e si sente), il gusto per i coup de théâtre, i camei di due squilibrati del cinema americano come Steve Buscemi e Cristopher Walken, … rendono il film gradevolmente surreale; il miscuglio kitsch di allegria e malinconia appare equilibrato; e alla fine nemmeno stona il declinante finale con la pacchiana apoteosi moralista (il fumo fa male e la famiglia è sacra) che risulta poco credibile dopo tanta dichiarata irriverenza.
Tanto poi, dopo i titoli di coda, il mondo continuerà a rotolare così, popolato da maschi più o meno arrapati, in crisi; da femmine più o meno possessive, in crisi; tutti perennemente impegnati a bisticciare e a promettere; a chiedere la felicità offrendo delusioni, e viceversa; a fare torti e a pentirsene, a subire torti e cercare vendette; a rincorrere soddisfazioni gratuite e negarne. In definitiva, a tirare avanti. Appagati qualche volta dal riconoscere un’emozione vissuta nelle note di una canzonetta, dal rispecchiarsi nei sentimenti di un cantante, dal condividere le passioni di un poeta. E sapendo che anche il cinema è un po’ vita vicaria.
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