Regia di John Turturro vedi scheda film
Pellicola di potente impatto visionario, divertente e caustica questa terza prova di John Turturro in veste di regista, che ci regala un’opera per certi versi sorprendente, impetuosa e malinconica al tempo stesso, che rappresenta un indubbio “momento di crescita creativa” e una evidente conferma del talento del suo autore. Un godimento assoluto dunque per gli occhi e la mente (oltre che per l’udito) questo “musical” proletario sboccato e temerariamente fuori da ogni schema, fra John Waters e Bukowsky (con un pizzico di poetica Sprigsteeniana, personaggio così conforme al progetto da essere stato persino chiamato in causa per il ruolo di protagonista e che “concede” per altro l’utilizzo, per la colonna sonora, di “Red headed Woman” meraviglioso pezzo perfettamente in “sintonia” anche visiva con l’assunto generale di questa insolita realizzazione socio-musicale). Il linguaggio molto “forte” e “colorito” dei dialoghi, che non ha paura di sfiorare la sublime trasgressività del trash nel suo irriverente anticonformismo divertito e dolente (ma che ci “arriva” paradossalmente “depurato” di ogni sottintesa volgarità, grazie anche alla sua ironica provocatorietà capace a volte di rendere le parole così “realisticamente usuali” da risultare persino “surreali”) è certamente uno dei cardini fondamentali che sta alla base della riuscita di un progetto molto ambizioso che intende (e ci riesce perfettamente) coniugare senza soluzione di continuità, l’aerea astrazione dei quadri musicali che contrappuntano e commentano l’azione, con la terragna quotidianità degli avvenimenti rappresentati, e che è capace di coinvolgerci lentamente, nostro malgrado (se manifestiamo la disponibilità a lasciarsi travolgere dal “gioco” che è anche sottile provocazione al perbenismo convenzionale) nell’intricato dipanarsi di una ovvia vicenda di corna, tradimenti, ripicche, ritorsioni e mesti ritorni all’ovile, che scivola lentamente dagli scintillanti, accesi contrasti cromatici della prima parte, verso i più cupi e spenti toni del “tragico” finale probabilmente inaspettato ma assolutamente “necessario”. Immergendoci a capofitto nelle “passioni” e nei “tormenti” del variegato universo di questo microcosmo che popola la desolata realtà degradata e dolente della periferia suburbana della Grande Mela, fra adulteri, crisi coniugali, debordanti “scopate” e malattie incurabili che smorzano risentimenti e passioni, non potremo quindi che esaltarci a nostra volta per l’intelligente originalità creativa dimostrata in questa circostanza e per le felici e coraggiose soluzioni adottate davvero insolite nell’odierno panorama cinematografico (rese probabilmente possibili dalla presenza in veste di produttori dei fratelli Cohen). Film totalmente incentrato sulla destabilizzante “attrazione” del sesso, unico elemento capace di rigenerare esistenze grigie e banalizzate, è al tempo stesso una analisi dei complessi rapporti coniugali e delle “crisi” esistenziali di una virilità maschile in declino in cerca di “rassicurazioni e conferme” da parte di corpi giovani, disponibili e disinibiti. E Turturro costruisce così la “sua” storia (quella di un operaio edile di mezza età ancora in fregola che si innamora di una commessa ninfomane e zoticona e per questo tradisce – e lascia – la moglie nonostante le figlie e i doveri, salvo “ravvedersi” quando il degrado fisico è irreversibile e non c’è più spazio per la felicità e anche l’amore deve essere sacrificato e disatteso) che è anche quella epocale e consueta della dualità femminile contrapposta (moglie/amante) che si estrinseca fra norma e trasgressione, tranquillità e passione, e dove ancora una volta, come da copione, sarà sempre e solo la prima ad avere la meglio e a “trionfare”, soprattutto quando “tutto è perduto”) “offrendoci” un musical anticonvenzionale e irriverente, spesso irresistibile, popolato di “numeri” da capogiro e attraversato da “figurine” e tipi stralunati e “assurdamente incredibili” che rappresentano davvero il sale e il condimento fra parolacce e doppi sensi, con caratterizzazioni così sopra le righe, da risultare più veritiere del vero. Nella galleria di personaggi tutti memorabili, spiccano certamente quelli della madre del protagonista che è al centro di una delle sequenze più causticamente esilaranti di tutta l’opera e alla quale è affidata una battuta che merita la trascrizione: “SI E’ FATTO PIU’ CULI LUI CHE LA TAVOLETTA DEL CESSO” sentenzia impassibile e concreta al figlio in degenza ospedaliera (per una colica dovuta a una eccessiva ingestione di liquirizia) dopo essersi fatto circoncidere per amore, ricordandogli come anche il padre e il nonno fossero altrettanto inclini a scappatelle amorose (ed è proprio al nonno che si riferisce il ricordo e la citazione), ma anche quelle del collega, amico e confidente (un lunare, metafisico Steve Buscemi) e dello sciroccato cugino Bo Diddley da poco uscito dal carcere per aver scontato una condanna per uxoricidio (una bellissima, “incredibile” caratterizzazione quasi delirante del debordante e bravissimo Chistopher Walken) che la Sarandon si porta dietro nella sua furia vendicativa. Della sceneggiatura e delle qualità cromatiche della fotografia abbiamo già detto, possiamo analogamente considerarci soddisfatti del risultato della traduzione (una temeraria e altrettanto “faticosa” ricerca di sinonimi e espressioni equivalenti per “rendere” in italiano termini gergali spesso intraducibili) e del doppiaggio (ma ritengo che la visione in originale, risulterà ancora più sublime ed immediata, come sempre accade in opere di questo tipo). Rimane da parlare adesso dei due valori superlativi ed assoluti che emergono prepotenti e incontrastati: la colonna sonora e l’interpretazione, entrambe da lasciare col fiato sospeso. Per la prima, non c’è che da inchinarci di fronte all’eccezionale lavoro svolto e per la “spudoratezza spavalda e incosciente” di aver avuto il felice ardire di accostare generi così difformi e dissimili fino a renderli uniformi e compatibili, un insieme omogeneo, perfettamente amalgamato e funzionale, mischiando Anna Identici a Janis Joplin, Tom Jones a James Brown, Cindy Lauper a Elvis Presley, Scapricciatiello in versione originale (quelle tette spumeggianti e carnose che si scuotono e “traballano” invitanti nell’indimenticabile “numero” sul ritmo indiavolato della canzone rappresentano un invito ed un programma….) a “A Man without love” di Humperdinck, etc. etc. Gli attori poi sono tutti strepitosi. Di Buscemi e Walken abbiamo già detto (e non possiamo che sperticarci ancora in lodi e battimani) ma dovremmo davvero citarli tutti con menzione di lode, dall’erotomane e fuso di testa vicino di casa capo del complesso canoro, alle tre figlie (spiccano fra queste la bella prova di Marie-Loiuse Parker ancora una volta inappuntabile e quella altrettanto significativa di una svampita Aida Turturro); da una felicemente ritrovata Barbara Sukova a tutta la folta schiera dei comprimari che ci offrono una indimenticabile e felice sequela di camei fortemente caratterizzati. Fra i tre stupendi protagonisti (un raffinato, sornione, perfetto in ogni sfumatura James Gandolfini e una altrettanto stupefacente Susan Sarandon, moglie offesa e combattiva, orgogliosa e dolente, capace di “eccedere” a sua volta e di diventare furiosamente travolgente ed aggressiva) merita il posto d’onore la maiuscola prova offerta da Kate Winslett, zoccola burrosa e passionale dalla “fica troppo larga” che riesce ancora una volta a stupire (e la sua carriera ne è una folgorante dimostrazione) per la sua bravura e la sua duttilità, doti queste che le consentono di affrontare ruoli così lontani fra loro e di “restituirceli”sempre credibilmente entusiasmanti, come nel caso di questa carnale Tula, volgare e assatanata commessa di negozio di biancheria intima poco ortodossa, libidinosa ed estemporanea al quale Turturro riserva i momenti più memorabilmente intensi e partecipati (ma anche quelli più trucidi dell’intero film) a partire dall’innamorata presentazione “rosso fuoco” fra le fiamme, senza dimenticare il turpiloquio impossibile della scena di sesso, o la carrellata che accompagna quel corpo volgarmente intento a magiare il pollo con le mani, fino alla indimenticabile sequenza altamente poetica dell’abbandono, risolta in apnea col corpo fluttuante e perduto che sembra quasi disintegrarsi e dissolversi nell’azzurro traslucido dei fondali opalescenti. Un film divertente e drammatico, che sa dosare divertimento e partecipazione emotiva insomma e che ci lascia la riflessione di un finale altamente coinvolgente e appassionato.
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