Regia di Fernando Meirelles vedi scheda film
Un’attivista politica viene trovata morta nel nord del Kenya. Il marito, un diplomatico inglese, indaga.,C’è molto di costruito, artefatto e politicamente corretto nell’ultimo film di Fernando Mereilles, proprio lui che tre anni fa salì alla ribalta con un film scomodo e ruvido come 'City of God', il film sulle favelas brasiliane. Rispetto a questo, 'The Constant Gardener' è l’esatto opposto: immagini patinate, personaggi resi schematicamente, un coinvolgimento dello spettatore ridotto ai minimi termini. Eppure la Weisz ha vinto l’Oscar per la migliore interpretazione non protagonista nei panni di Tessa Quayle, l’attivista politica che John Le Carré, da cui il film è tratto, ha modellato da un’attivista esistita realmente. Tessa, martire per l’Africa e per l’indipendenza dei popoli africani dallo sfruttamento economico degli stati occidentali, delle industrie farmaceutiche che sperimentano sui bambini del continente nero i vaccini da utilizzare sui bianchi. Tessa, in lotta contro la diplomazia, che nel film appare nella versione più degradata possibile, una sorta di agenzia estera per gli sporchi traffici delle opulente madrepatrie. Tessa, che è talmente solidale e vicina alla donne nere da voler sperimentare con loro la sala parto di un laido e inefficiente ospedale keniota. Tessa, la paladina del Progresso, per cui percorre mezza Africa per annunciare la buona novella: più sterilizzazioni per tutte. Insomma, in questo concentrato di purezza, moralismo e intransigenza, si possono ritrovare più luoghi comuni che non una vera umanità che, per quanto volta a un bene, in questo caso tutto da dimostrare, il cinema deve avere a cuore di scandagliare il più approfonditamente possibile. Peccati, difetti, limiti e dubbi compresi. E invece il personaggio interpretato dalla Weisz non ammette opposizioni o domande. Nemmeno dubbi: lei è dalla parte giusta e lotta per il bene del mondo. E’ la tesi di partenza: prendere o lasciare. Un personaggio talmente “necessario” (leggi: anti Bush) – secondo il termine con cui molti giornali proprio in queste settimane hanno cercato imbarazzati di etichettare il film- da far dimenticare i tanti difetti di un film che non sa mai che strada prendere (spy story o denuncia politica ?), manifesta limiti pesanti nella scrittura (troppo plateale il mutamento del capo della delegazione inglese in Kenya), sfrutta male il cast (fredda e accademica l’interpretazione di Fiennes e Weisz) e soprattutto non indigna, non avvince e nemmeno convince.
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