Regia di Fernando Meirelles vedi scheda film
Tradurre in immagini le pagine di un libro, per il cinema significa comprimere o dilatare i suoi contenuti narrativi, talvolta senza troppo rispetto o senza l'obbligo di fornire altre chiavi di lettura nel pieno della libertà di un autore regista. Poche volte l'aderenza è totale mentre banalmente s'innesca quello stucchevole gioco di paragone che se non protetto da diciture del tipo"liberamente tratto da.." riduce il film ad una copia ridimensionata del racconto scritto. Quando poi come nel caso di The Constant gardener, La cospirazione, si tratta di un best seller che per definizione ha già incorporato un grande consenso di pubblico grazie anche alla personalità dell'autore, J.Le Carrè scrittore fra i più tradotti al cinema, il tentativo ammirevole di F.Meirelles, ha già il gusto dell'impresa se ne vuole fare scaturire un lavoro più personale che una semplicistica riproduzione legata al genere.
Per stessa ammissione del regista brasiliano, il giallo e il mistero non sono elementi presenti nelle sue corde, e già intuibilmente si può capire come il testo deragli verso altri lidi, neanche necessariamente solo attrezzati di quella compensazione economica che riesce a diradare ogni titubanza per affrontare linguaggi e codici impropri. Reduce dal social crime movie City of God, ne fa il suo punto di partenza, Meirelles lavora sulla ridondanza di colori, di effetti scenici, di moltiplicazioni musicali che mettono da subito nell'angolo lo sviluppo e il ritmo della spy story che segna la pagina scritta. Il regista opta per la massiccia iniezione melodrammatica mettendo a fuoco con l'abuso del flashback il rapporto fra i protagonisti (gli eccellenti R.Fiennes e l'adorabile R.Weisz). Lui, Justin, è un impalato diplomatico inglese col pollice verde, lei, Tessa, disinvolta giornalista impegnata sul fronte dei diritti civili col dito medio perennemente rivolto in sù. Se nel descrivere le favelas brasiliane Meirelles riusciva a trasmettere tutto il disagio, la violenza, la disperazione di quell'ambiente, lavorando sui volti, enfatizzando gesti che codificavano un vero e proprio mondo a parte, la baraccopoli kenyota vista con gli occhi dei protagonisti è ben più sfumata e lontana dalla realtà, unicamente propagandata come universo dei deboli alla mercè dei cattivi sfruttatori, in questo caso le multinazionali del farmaco che attuano i loro esperimenti sulla popolazione. La traccia noir che muove Justin per cercare la verità sulla scomparsa della moglie Tessa è strumentalizzata per creare a posteriori una relazione fra i due che prima era evidentemente lacunosa. Non che l'idea non sia valida, ma creando di fatto un'appendice importante che separa il contesto che guida film e libro, occorrerebbe che la forza dell'amore ritrovato fosse pari alla denuncia, che la rinascita morale del personaggio maschile si riversasse in un senso etico nuovo, di testimonianza e anche di fallimento personale davanti ai fatti che gli hanno aperto gli occhi. Invece il regista si preoccupa di caricare esteticamente le immagini, dove mostra il marciume c'è subito lo scorcio romantico cartolinesco, il presunto carattere indipendente di Tessa riproposto all'indietro nel tempo sempre colmo di atteggiamenti compensatori con dolcezze e attenzioni, come se qualcuno potesse davvero credere all'ipotetico tradimento che lacera il marito vedendola un pò assente dal quadro familiare. La musica chiude il cerchio se ce ne fosse il bisogno, il mondo del bene viene ottimamente rappresentato con interpreti inscalfibili e il male è destinato a soccombere ma sottotraccia, senza troppo rumore. Dimenticavo, a qualcuno scapperà la lacrimuccia, come nei migliori best sellers.
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