Regia di Robert Redford vedi scheda film
Esordio alla regia di Robert Redford, uno dei migliori interpreti di Hollywood che da allora ha portato avanti una rispettabile carriera dietro la macchina da presa. È un dramma familiare basato su un romanzo di Judith Guest, che alcune fonti definiscono "l'opera di una casalinga americana che ebbe un notevole e inaspettato successo": si tratta dell'elaborazione del lutto per la tragica morte di un figlio in una famiglia benestante dell'Illinois, con il figlio minore che prova forti sensi di colpa. La qualità principale del film è la direzione del cast: gli attori sono tutti all'altezza dei rispettivi ruoli, sia Donald Sutherland nel ruolo sofferente del padre, sia una Mary Tyler Moore in un'interpretazione drammatica che la emancipo' dai ruoli televisivi con cui era diventata famosa in America, sia l'esordiente Timothy Hutton che da' un credibile rilievo alla parte del figlio Conrad soffocato dal senso di colpa. Anche la figura dello psicanalista è resa credibile da una bella prestazione di Judd Hirsch, che caratterizza il ruolo in maniera positiva e umana. Tuttavia, il film un po' si ferma a queste ottime interpretazioni e la regia non riesce a dare uno spessore così incisivo alla sceneggiatura di Alvin Sargent, che resta nel solco un po' risaputo di una storia di conflitti familiari destinati a sciogliersi grazie ad un intervento risolutore dall'esterno. Non mi sorprende che abbia vinto gli Oscar principali, anche se quell'anno c'erano film di calibro registico superiore come "Toro scatenato" di Scorsese e io penso che sarebbe stato più giusto ricompensare Redford come attore per altri film (qui poi si tocca il fondo dell'idiozia quando si premia come "attore non protagonista" Timothy Hutton, che è il vero protagonista della storia). Un film giocato sulla rappresentazione del disagio profondo che cova nella "upper middle class" e qui dovuto soprattutto all'egoismo della madre, che Redford ha ritratto con una sensibilità notevole, pur senza toccare il genio.
Voto 7/10
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