Regia di Cristina Comencini vedi scheda film
La bestia nel cuore era uno dei tre film italiani (senz’altro il migliore) in Concorso alla 62ma Mostra del Cinema di Venezia, per il quale l’interprete, Giovanna Mezzogiorno, s’è guadagnata la Coppa Volpi come Migliore attrice protagonista. E’ la prima volta che la regista, Cristina Comencini (Liberate i pesci, Il più bel giorno della mia vita) decide di adattare un proprio romanzo per il grande schermo, sceneggiato a sei mani con Francesca Marciano e Giulia Calda.
L’emozionante storia è quella di Sabina, ch’è stata violata, come Daniele, suo fratello, prima di lei. Abusata da un padre e condannata dal silenzio della madre, Sabina cerca in tutti i modi di domare la bestia ch’è in lei, fino a quando, nella sala di doppiaggio, dove lavora, prestando la sua voce a una giovane donna stuprata in un film per la televisione, Sabina comincia a rivivere parte dell’incubo che poi affiora durante la notte: Morfeo la consegna all’orrore di un fatto rimosso. La morte dei genitori e la sua gravidanza la costringono a raggiungere Daniele, un fratello sensibile e rassegnato, che mai più desidera ritornare nel suo paese d’origine, sinonimo di sofferenza e ricordi strazianti.
Attraverso lunghi flasback sull’infanzia, l’incubo e il sogno, la protagonista sembra voler reprimere i ricordi, solo per un po’ rimossi, ma troppo violenti per essere completamente dimenticati. Come una specie di automa, slegato dalla sua stessa vita, Sabina crede di non avere altro su cui contare che l’amore per il fratello lontano e la storica amicizia con Emilia (una credibile Stefania Rocca), ora cieca a causa di una malattia, da sempre innamorata della sua compagna di scuola.
Si tratta di un film corale, che raccoglie “la meglio gioventù” del nostro cinema italiano. Ci saremmo aspettati la Coppa Volpi ad Angela Finocchiaro, visto che nel film è, senza ombra di dubbio, colei che interpretando in modo stupefacente e divertente (come sempre!) ‘l’amica dell’amica’, sorregge anche le sorti di un’attrice, Giovanna Mezzogiorno, che si aggira per tutta la durata del film con espressione attonita, urlando (come al solito!) e versando lacrime. Eppure colei che avrebbe dovuto sconfiggere quella bestia-ricordo-rancore, divoratrice dell’anima, finisce per rivelarsi un personaggio assolutamente scontato. Si ha l’impressione, alla fine, che Sabina, nonostante la sofferenza, si convince a convivere con quel sentimento di rabbia, la “bestia” appunto, che si cela nei meandri più profondi del suo animo. Peccato, perché l’idea della giovane doppiatrice che, in fin dei conti, non doppia altro che sé stessa per tutta la vita, avrebbe potuto funzionare molto di più e fare del film un capolavoro. Non mancano, tuttavia, bei momenti in cui ci si emoziona: uno su tutti il racconto che Sabina fa di sé a suo fratello. In questa scena, in particolare, ritroviamo un Lo Cascio in stato di grazia, capace di emozionare per mezzo del suo solo sguardo.
Ma, non contenta, la Comencini, osa andare oltre, spingendosi fino alla fusione e confusione dell’incubo in duplice viaggio: quello fisico, che conduce Sabina in Virginia e quello interiore, che servirà a lei e a tutte le persone che le sono vicine, perchè muterà il corso delle loro esistenze. Altra scena rilevante è quella assolutamente dark e claustrofobica, bellissima, a cui dà origine la regista nel momento delle doglie di Sabina all’interno di un vagone del treno.
Affrontando il tema della pedofilia e delle molestie familiari, con grande sensibilità ed una certa maturità registica, la Comencini è stata capace soprattutto di ridare volto e uno sguardo al cinema italiano tutto al femminile: operazione, senz’altro non voluta, del tutto naturale, ma affatto scontata nel panorama assolutisticamente maschilistico e cinefilo, più vicino a quello cinofilo (compresi i registi, i critici e quant’altro). E’ vero che si tratta di una regista nutritasi di tanta commedia all’italiana, compresa quella dell’amatissimo padre, Luigi Comencini, ma senza alcuna remora, grazie a questo suo film abbiamo avuto la speranza e l’impressione che il cuore di quella “bestia” del cinema italiano batte ancora.
Giancarlo Visitilli
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