Regia di Dario Argento vedi scheda film
Il verso di un uccello esotico, nove possibili soluzioni per un enigma intriso di cadaveri e infine quattro mosche impresse nell’iride di una donna morta, sono questi i particolari unici e rivelatori scelti da Dario Argento per i suoi primi tre film, poi passati alla storia come la trilogia degli animali.
L’uccello dalle piume di cristallo fu un clamoroso successo ma in Italia tale successo giunse con tempi più dilatati, al contrario degli Stati Uniti dove il film ebbe fin dall’inizio un grande seguito, fu proprio una casa di produzione americana (la National General) a spingere affinchè il regista romano tornasse subito dietro la macchina da presa.
Detto e fatto, Argento con il supporto economico degli americani (e di alcune case di produzione europee) si mise subito all’opera scrivendo un plot a sei mani con Dardano Sacchetti e Luigi Collo, una storia che con il precedente film non aveva nulla in comune, tra le variazioni piu eclatanti si segnala la scomparsa della figura dell’assassino di nero vestito, ma non la soggettiva del killer, che il regista riprende e sfrutta alla grande anche in questa seconda opera.
Il gatto a nove code è un giallo molto classico che segue binari narrativi abbastanza prevedibili, a differenza degli altri due film della trilogia manca uno studio e un approfondimento psicologico del villain di turno, la spiegazione della follia omicida viene infatti delimitata in un contesto “scientifico” che ne smorza in parte l’efficacia.
Ammetto che la questione del cromosoma XYY non mi ha mai convinto del tutto, mi è sempre sembrato uno spunto come un altro per giustificare i numerosi omicidi e nulla più, a dire il vero tutta la storia della clinica Terzi, con i vari medici (vittime e sospettati) l’ho sempre trovata molto banale, degna di un gialletto di routine.
Forse al tempo dell'uscita del film tale intrigo poteva suscitare maggiore curiosità o interesse ma oggi rappresenta senza dubbio il punto debole di un plot già di suo non entusiasmante, un handicap che tuttavia non riesce ad affossare l’opera di Argento, che della storia ne fa infine un “contorno” necessario, ma non indispensabile.
Come era già successo nel film d’esordio è l’estetica e la forma che colpiscono lo spettatore, il particolare modo di raccontare per immagini, la studiata arte nelle rappresentazioni di omicidi sempre più cruenti, Argento conferma il suo talento visionario (l’occhio gigantesco che improvvisamente invade lo schermo) e tiene in piede alla grande una pellicola che in mano ad altri, sono certo, non avrebbe funzionato.
Il suo inimitabile stile, la sua voglia di sperimentare, di giocare con il mezzo cinematografico, con le inquadrature, le luci, il montaggio, sono questi gli elementi che più affascinano e che rendono una storiella abbastanza semplice (ma resa volutamente e forzatamente complessa) affascinante e coinvolgente, perché nonostante i limiti del soggetto la tensione e la suspense non vengono mai meno.
Considero Il gatto a nove code l’opera meno riuscita della famosa trilogia degli animali, ma nonostante questo è un film che mi piace molto e che rivedo sempre volentieri, mi piace ritrovare il grandissimo Karl Malden nella parte del cieco Arnò, amante degli enigmi e del rischio, insieme a lui il giornalista James Franciscus deciso anche lui a rischiare grosso per scoprire la verità e per conquistare la bella Catherine Spaak.
Un cast senza dubbio di buonissimo livello che impreziosisce la pellicola ma che non riesce ad evitare qualche lungaggine di troppo e alcune fasi poco dinamiche, Argento comunque si rifà alla grande dirigendo almeno un paio di sequenze degne del suo talento, quella nel cimitero, perfetta nella costruzione di un atmosfera gotica ad altissima tensione, e quella finale dell’inseguimento sui tetti, ottima chiusura per un film (forse) minore ma comunque godibile.
Non manca infine un altro tocco caratteristico del primo Argento, ossia l’inserimento di figure comiche a stemperare il clima opprimente della storia, in questo caso abbiamo due personaggi abbastanza riusciti che strappano qualche sorriso, mi riferisco a Corrado Olmi che interpreta il poliziotto fissato con le ricette della moglie e soprattutto a Ugo Fangareggi nella parte del ladro sfigato Gigi “scalogna”.
Un capitolo a parte meritano le numerose citazioni/omaggi al cinema di Hitchcock, la più evidente è certamente quella del latte avvelenato, una lunga scena di suspense dove il regista inserisce un intermezzo amoroso che serve solo a prolungare un attesa snervante, Catherine Spaak (come Joan Fontaine ne Il sospetto) berrà infine il latte avvelenato?
E poi abbiamo Franciscus che dalla finestra spia con il binocolo i medici della clinica Terzi (come James Stewart ne La finestra sul cortile), l’assassino che si nasconde nella doccia (Psyco) e infine la sequenza conclusiva sui tetti che richiama direttamente il pirotecnico finale di Caccia al ladro.
In verità c’è anche spazio per una piccola autocitazione, nella sequenza d’apertura quando l’assassino entra nella clinica incontra due medici a fine turno, uno dei due mentre si cambia intona la macabra ballata che Morricone ha scritto per L’uccello dalle piume di cristallo, un divertente omaggio al film che ha lanciato la carriera di Argento ma anche a Morricone stesso, che firma le musiche anche per questo secondo film.
Nonostante i suoi limiti Il gatto a nove code resta una tappa fondamentale per Argento, perché pur non riuscendo a valorizzare la parte narrativa permette al regista di continuare la sperimentazione e lo sviluppo del suo stile visivo che, già ben indirizzato, si andava sempre più perfezionando portandolo da lì a pochi anni a raggiungere il top della sua arte.
Voto: 7
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