Regia di Richard Brooks vedi scheda film
Un convincente adattamento cinematografico, pur dispiacendo che il moralismo abbia colpito persino questo film. In assenza della componente omosessuale, il contesto è come se si trovasse privo di un arto. Dialoghi eccezionali, cast in stato di grazia e una storia che piacerà a chiunque, malgrado sia preferibile recuperare il bel dramma teatrale.
Tennessee Williams è uno di quei drammaturghi contemporanei che è lecito definire peculiare.
Il motivo è presto detto: egli è uno di quei pochi autori dei quali anche se non abbiamo mai letto una delle sue opere, ne conosciamo bene o male la gran parte per vie indirette. Queste ultime sono senza ombra di dubbio i numerosi film durante gli anni '50 e '60 che presero spunto o furono proprio tratti (come è il caso della pellicola in questione) dalla sua bibliografia.
Williams fu uno di quegli autori che durante i decenni dei benpensanti ebbe la capacità di scrivere e svelare tutte le ipocrisie e le falsità della società occidentale, la quale tentava di celare dietro un velo di perbenismo tutto ciò che era considerato scorretto secondo la legge divina o umana.
Leggendo ciò, si sarà senz'altro capito dell'ammirazione nutrita verso questo autore e che dunque mi riesca difficoltoso considerare il film di Richard Brooks senza tenere conto di una grossa problematica: il lungometraggio incappò proprio nelle maglie di quel moralismo da cui Williams cercava di tenersi alla larga, cioè le dure regole imposte dal codice Hays.
Brooks dovette abbandonare l'idea di accennare della possibile relazione omosessuale tra Skipper e Brick, sciaguratamente così facendo privò al dramma una motivazione non solo centrale, ma imprescindibile.
Skipper assume la figura dell'amico idealizzato ed è inevitabile che nel film si formino incongruenze insanabili per qualsiasi sceneggiatura: tra queste vi è sicuramente il rapporto tra Brick e Maggie. Se nel libro di Williams è indubbio che tra i due il loro sodalizio coniugale sia ormai giunto alla mera messinscena, nel film (soprattutto nel finale) volendo canonizzare i personaggi verso gli stili dei tipici drammi hollywoodiani, la coppia di coniugi sembra semplicemente messa alla prova ma alla fine risulta comunque unita da un amore sincero esplicitato con un bacio prima dei titoli di coda. Tutto questo fa perdere ciò che Williams voleva mostrare della società, cioè una facciata fintamente serena in cui vi è una generale mancanza d'amore se non per il vile denaro.
Fortunatamente, le restanti tematiche sono invariate e si riesce ancora a respirare quella fitta rete di bugie e di maschere in cui riversa tutta la famiglia Pollitt, nessuno escluso, persino i nostri due protagonisti: Maggie stessa non ha nessuna intenzione di incarnare il ruolo della mogliettina adorabile, al contrario ella è mossa dagli stessi scopi della cognata, con la differenza che Maggie è più astuta e meno appariscente nel perseguire la sua ambizione.
Anche Brick, pur mosso dagli effluvi dell'alcool ad un inaspettato coraggio e critica verso l'ipocrisia generale, in un momento di grande drammaticità verbale, che qui bisogna ammettere, grazie alle musiche e alle atmosfere create supera di gran lunga il climax del dramma scritto, alla fine egli si abbandona comunque alla menzogna pur di allontanare la scomoda realtà che non piace a nessuno.
Bisogna dunque dar atto a Brooks di aver saputo adattare i dialoghi del dramma per il cinema, rendendoli così memorabili, significativi e spesso carichi di una suspance unica.
Tutti i rapporti verbali inter-familiari sono osservati con cura e resi benissimo, soprattutto grazie alle ottime intepretazioni del cast: l'incontro tra padre e figlio in cantina, per esempio, è da antologia tanto è carico ed espressivo, grazie alle interpretazioni di Paul Newman e Burl Ives entrambi in forma smagliante. Se a questo uniamo l'ottima fotografia di William H. Daniels abbiamo un risultato più che egregio. L'eccessiva luminosità di casa Pollitt fa trasparire un senso di finzione dell'ambiente generale, che assume, deliberatamente, la parvenza di un palco di teatro, per poi passare nella scena clou a delle tinte marroni e scure, in una cantina metafora del subconscio, un luogo oscuro ove vengono relegate tutte le verità più scomode.
Bevo per vincere il disgusto! Sai cos’è l’ipocrisia? […] Non si può vivere d’altro che d’ipocrisia”.
La regia di Brooks, invece, è riuscita per metà: se nella seconda parte segue i suoi personaggi con i movimenti tipici del dramma familiare prendendo più volte spunto da Hitchcock e quindi riuscendo nel suo voler dare all'insieme un crescendo emotivo che sfocerà tutto nella riappacificazione tra Big Daddy e Brick, nella prima parte risente di un'eccessiva lentezza e spaesamento attaccandosi per lo più alle doti di Paul Newman ed Elizabeth Taylor con tantissimi primi piani. Comprensibile, visto che in assenza della tematica omosessuale i primi 40 minuti risultano vuoti ed esclusivamente utili a porre le basi per ciò che scoppierà nella seconda parte.
Un convincente adattamento cinematografico dell'opera di Williams, anche se rimane un grande dispiacere che il puritanesimo imperante in quegli anni abbia colpito persino, tra tutti, questo film. In assenza della componente omosessuale, il contesto è come se si trovasse privo di un arto umano.
Tolta una prima parte un po' scialba, abbiamo un lungometraggio dai dialoghi eccezionali e da un cast in stato di grazia con una regia forse un po' troppo legata al teatro, ma con una storia che piacerà a chiunque e a cui non mi sento in grado di dare una votazione elevata, nonostante sia ben fatto, a causa del mio attaccamento al bellissimo dramma teatrale, che, ovviamente, consiglio a tutti di recuperare.
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