Regia di Peter Jackson vedi scheda film
Ci sono molti cuori in King Kong. E un unico ingegno. C’è il cuore ammaccato di Ann Darrow, attrice del music hall in disgrazia da Depressione («La ragazza più triste cui si possa pensare», la definisce Carl Denham), che va incontro al proprio destino dopo una minuscola esitazione, poi su, con la scarpa azzurro carta da zucchero, sulla passerella che conduce sulla Venture. C’è quello di Jack Driscoll, un libro in mano e quella faccia supponente da intellettuale, non più uomo d’azione come nel ’33, ma autore di commedie impegnate (di quelle che andavano in scena al Federal Theatre), che guarda Ann e si innamora di lei ed è costretto a scalare vette inaudite per salvarla. E c’è il cuore di Kong, signore di Skull Island, dominatore delle creature antiche che vivono sull’isola che non è segnata sulle carte geografiche, brontosauri, T Rex e serpenti, zanzare, blatte, sanguisughe giganti, che è stanco, è solo, si intenerisce davanti a un tramonto infuocato, e che viene conquistato non solo e non tanto dalla bellezza bionda della sua preda, quanto dalle capriole e dalle cadute del suo repertorio da torte in faccia. Be a Clown, diceva la canzone degli anni ’30 di Cole Porter, riscritta come Make ‘Em Laugh (falli ridere) in Cantando sotto la pioggia. Ann, la Bella, invece di stuzzicarla sessualmente (come faceva nelle versioni precedenti, tra le righe nel ’33 e apertamente nel ’76), fa ridere la Bestia, che perciò la sceglie come compagna e complice, fino ad abbandonarsi con lei, in un Central Park natalizio e innevato, al duetto più romantico e tenero degli ultimi anni. Ma c’è un altro cuore, un “cuore di tenebra” che non è solo il titolo del romanzo di Conrad rubato in biblioteca dal mozzo Jimmy (Jimmy come nell’Isola del tesoro di Stevenson): è il cuore di Carl Denham, regista e produttore indipendente, genio intemperante, imbroglione tra gli imbroglioni, illuso e illusionista (come Orson Welles, sul quale è palesemente, somaticamente costruito da Jack Black), pronto a mettere a repentaglio la vita di chiunque per un pugno di inquadrature eccentriche, uno per il quale la realtà è solo quella che vive su uno schermo o su un palcoscenico, uno che «ha l’inesauribile capacità di distruggere quello che ama». È suo l’ingegno oscuro che guida all’incontro con il Destino Ann, Jack e tutti gli uomini imbarcati sulla Venture, per andare a scoprire cosa c’è oltre le rotte conosciute, oltre il muro intagliato di ossa e teschi, e fissare dritto negli occhi il suo Kurtz (il primo sguardo “umano” di Kong è quello di sfida scambiato con Denham). Dire che Denham è Peter Jackson è elementare, come dire che Jackson aveva in mente Apocalypse Now nel momento in cui immaginava l’arrivo a Skull Island, il muro e i selvaggi dai denti affilati, nelle scene più ossessionate e “orrifiche” del film. Ma Jackson ha un cervello più fiabesco di Coppola, e impasta l’incontro con la propria zona d’ombra, il doppio titanismo di Denham e di Kong, lo scontro mortale tra la civiltà e la natura, tra il cinema e la sua materializzazione impossibile, con i mostri, i draghi, le creature, le avventure iniziatiche del suo immaginario celtico-hollywoodiano. Sa che bisogna anche ”farci ridere” (e tremare, sobbalzare, inorridire, commuovere); e perciò, ecco la fuga rovinosa dei brontosauri, le battute del cuoco Lumpy e dello stesso Denham, il fantastico combattimento tra Kong e tre T Rex tra le liane, i duetti d’amore tra Kong e Ann. Ecco che, finalmente seduta sulla cima del mondo (I’m Sitting on the Top of the World, interpretata da Al Jolson, apre emblematicamente il film), di un altro mondo, ostile e civilizzato, la Bestia dice addio alla Bella, e precipita giù dall’Empire State Building dove lo attende Denham, con la sua frase fatidica. Ma uno di quelli che gli ha sparato dal biplano era, come accadeva nel film del ’33, proprio Peter Jackson.
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