Regia di Peter Jackson vedi scheda film
King Kong, ovvero la fine della possibilità di far palpitare le emozioni e la fantasia, di far rivivere l'immaginario perduto e favolistico di un mondo in estinzione, se non ormai criminalmente estirpato del tutto e non più rianimabile, soffocato dalla stupidità dilagante: solo così si può spiegare il parziale insuccesso commerciale di un'opera che avrebbe invece dovuto avere - sulla carta e non solo - tutti i crismi per conciliare i gusti delle masse con le sollecitazioni dell'intelligenza di chi ancora al cinema vuole commuoversi e, in qualche modo, anche "pensare". Ma forse sta proprio nella difficoltà oggettiva, visti i tempi che corrono, di armonizzare le due posizioni difficilmente compatibili fra loro, a rendere impossibile la realizzazione pratica dell'utopia rappresentata dal "sogno" lungamente vagheggiato e forse troppo tardi arrivato a compimento, della rivisitazione immaginifica di un "mito" struggente segnato dal ricordo indelebile di quel meravilgioso e fantastico "bianco e nero" lontano, ma ancora così vivo nella memoria, che Jackson ha tentato di rendere nuovamente attuale, pur con qualche concessione di troppo alla platealità effettistica degli accumoli di spettacolarità offerta dai progressi tecnici che rendono possibile (ma "disumanizzano" e "meccanizzano") anche la visione dell'impossibile, disarmonizzando così i risultati finali della pellicola. Film dalla doppia anima, dunque: le premesse sono molto allettanti e positive e rappresentano a mio avviso la parte più stimolante, il versante "riuscito" dell'perazione (insieme all'epilogo) fra sottili rimandi conradiani ed echi Wellessiani, chiaramente avvertibili anche nella caratterizzazione fisica del personaggio del regista, molto più che una citazione visiva: quasi una identificazione sottilmente giocata al rimpallo, fra Welles appunto e lo stesso Jackson. La descrizione ambientale è perfetta: incisiva e veritiera la genesi, esatta la ricostruzione, inappuntabile la definizione delle atmosfere, filologicamente accurati i coinvolgimenti sociali con la rappresentazione accorata e sofferta di quella miseria strisciante che mise in ginocchio l'intera nazione americana, in quel particolare periodo storico, di quella crisi profonda che ha attraversato quella "generazione perduta", che rappresenta la matrice indispensabile, il presupposto imprescindibile, per rendere plausibile la "ricerca dell'evasione", la "necessità della fuga nell'avventura verso l'ignoto", che crea l'humus e il substrato indispensabile per far scaturire le sollecitazioni necessarie a far rivivere quell'isola sconosciuta e misteriosa, quel gigante meraviglioso e impossibile che ne è l'indiscusso sovrano e tiranno, e quella struggente storia d'amore impossibile e struggente, qulla "idelizzazione incantata" dal tragico epilogo di un sentimento che non accetta ostacoli o barriere. Basterebbe fare il confronto con l'altra America analogamente inappuntabile, ma manierata e mielosa proposta da Howard per Cinderella Men per apprezzare le differenze e valutare al meglio il talento di Jackson. Anche le caratterizzazioni dei personaggi sono positivamente realizzate (fra tutti il meno riuscito è proprio quello affidato ad Adrian Brody - l'antagonista del trinagolo amoroso - oggettivamente troppo di maniera e decisamente scontato nella classica evoluzione della storia e dei suoi risvolti sentimentali): gli attori perfettamente calati nei ruoli, con punte di eccellenza... (indimenticabile la Watts e il tip tap), le ambiguità sottilmente disseminate a creare tensione e a sollecitarie l'immaginario e le aspettative... e la dilatazione dei tempi mi aveva fatto sperare su uno sviluppo anticonvenzionale dell'opera, iconograficamente corrispondente all'originale, ma differenziata da una visione più caustica, quasi la voglia di prendere in qualche modo la distanza critica degli avvenimenti, presentandoli sì in una cornice realisticamente credibile, ma nella dimensione atemporale, sospesa nello spazio e nel tempo,della favola e del mito. La tensione rimane altissima fino all'arrivo nell'isola con quegli inquietanti abitatori, di nuovo riportati al ruolo di "vittime" più che di guardiani, di quella preistoria residua ai confini del mondo... figure inquiete, quasi spettrali e orrorifiche. Poi però nella parte centrale l'altra "anima" del film, ha purtroppo il sopravvento, diventa frastornante e caotica, si annacqua nella voglia di sbalordire, come in un innocuo, dozzinale, scontato blockbuster, trasformandosi in un giocattolone oieno di trovate mirabolanti e poc'altro. Ed è appunto la precipitosa caduta verso l'ovvietà della tecnica da capogiro che tutto può (pur con qualche annotazione ironicamente pungente dissemniata qua e là) l'improvvisa mancanza di "sostanza" che determina il giudizio perplesso per questa svolta inattesa (ma prevedibile), non certo la realizzazione, perchè gli effetti sono oggettivamente sbalorditivi, il perfezionismo del meccanismo assoluto, ma l'accumulo genera assuefazione.. come si dice, il troppo stroppia, perchè in King Kong affinchè alla fine i conti tornino davvero, dovrebbero continuare a prevalere sempre e comunque i "sentimenti" sui tecnicismi da circo di questo paese delle meraviglie. King Kong in fondo è semplicemente una storia d'amore impossibile (la favola antica e sempre nuova della bella e della bestia) di un trasporto e una dedizione che si sublima nel sacrificio... e allora l'accumolo davvero frastornante che ci bersaglia per troppo tempo, finisce solo per disturbare, facendoci perdere la concentrazione, dissolve l'interesse, confonde e devia, come se all'improvviso avessimo cambiato sala e pellicola...: non c'è più a stupirci la magica atmosfera sospesa che ci aveva affascinati e coinvolti, tutto diventa troppo "scontatamente realistico" in quella ripetizione ossessiva di sconri e recuperi fra mostri e liane, quasi da videogioco. Ma fortunatamente è solo una parentesi (lunga, ma una parentesi): poi si ritrova tutta la poesia dell'inizio, con momenti davvero indimenticabili che "umanizzano" ancora di più il King Kong smarrito e prigioniero perduto dal suo impossibile innamoramento, esaltano la passione che lo porterà inevitabilmente a perdersi definitivamente in quella civiltà golosa e avida che non potrà che distruggerlo: a New York non c'è, ne potrà mai esserci davvero, un posto per lui e per il suo mondo. E le immagini tornano a farsi vorticose e affascinanti, con la ricerca disperata della bella fra le mille bionde ossigenate della città... e il disperato tentativo di difendersi arrampicandosi sulla cima di quell'improbabile montagna che è l'Empire State Building. E lassù, in cima, di nuovo insieme, su quella sterminata visione di una giungla diversa e infinitamente più infida fatta di acciaio e di cemento, di case e grattacieli, pullulante di una fauna diversa e difficilmente avversabile di pericolosi "vermi striscianti" e di ronzanti creature volanti che attaccano e feriscono, si infrangerà definitivamente il sogno e l'utopia... e tramonterà contemporaneamente anche quello vagheggiato da Jackson, irrimediabilmente in ritardo sui tempi e tradito da un pubblico ormai inaridito e insensibile, non più abituato (nè disponibile) a lasciarsi trascinare dall'immaginario delle proprie palpitazioni emotive e a "sognare ed esaltarsi nella visione" e per questo restio a riconoscere ed apprezzare la validità di un'operazione stilistica di alta scuola come questa. Due anime che non si saldano fra loro dunque: sta davvero in questa dualità inconciliabile la causa e la ragione di questo parziale insuccesso? troppo "intelligenti" e "preziose", colme di sottintesi, di rimandi e di "citazioni" le ricostruzioni ambientali e l'epilogo per accontentare chi cerca solo "spettacolo" e "barzellette triviali", soprattutto a Natale, il periodo più infausto e deleterio per la programmazione cinematografica; troppo ostentato e caotico l'eccezionale accumolo degli effetti che non lasciano tregua e respiro in sequenze di alto tecnicismo formale, ma che nulla aggiungono all'immaginario Jurassichiano ormai ampiamente assimilato e digerito da non suscitare nemmeno meraviglia, per non annoiare e distrarre chi si aspettava (lecitamente) una tenuta più coerente per tutta la durata del film di quelle atmosfere rarefatte e impalpabili e si sente in parte defraudato di una cospicua fetta di emozioni perchè gli viene preclusa la possibilità di vivere intensamente e senza divagazioni quel sogno d'amore vagheggiato, di parteggiare con assoluta adesione personale alla sofferenza esistenziale del "diverso" ancora una volta vittima sacrificale incolpevo di un mondo perverso?. Quella visione sottilmente coinvolgente riemerge prepotente in fondo alla storia, si amplifica, ha nuovamente il sopravvento, trascinandoti inesorabilmente verso la commozione... ma forse ormai è troppo tardi... i giochi sono già terminati, e non possiamo allora che constatare con sconsolata rassegnazione che i tempi per dare spazio e corpo a una "raffinata" operazione commerciale che pretende di avere anche un'anima, sono ormai così esigui (i telefonini incombono) da avere scarse probabilità di sopravvivenza futura... ed è questo l'aspetto più avvilente con il quale dobbiamo purtroppo cominciare a fare i conti.
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