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Gang

Regia di Robert Altman vedi scheda film

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La recensione su Gang

di Peppe Comune
9 stelle

Bowie (Keith Carradine), Chicamaw (John Schuck) e T-Dub (Bert Remsen) sono tre galeotti che sono riusciti ad evadere da un campo di lavoro del Mississipi. Si nascondono prima nella stazione di servizio di Dee Mobley (Tom Skerrit) e poi da Mattie (Louie Fletcher), la moglie del fratello detenuto di T-Dub. Si specializzano nella rapina alle banche conquistando anche i titoli dei giornali, la loro intenzione è quella di racimolare quanti più soldi è possibile prima di dileguarsi oltre i confini statunitensi. Un giorno Bowie viene coinvolto in un tremendo incidente d’auto e Chicamaw riesce a portarlo al sicuro alla stazione di servizio che già li ha visti ospiti. Qui viene accudito da Keechie (Shelley Duvall), la figlia di Dee Mobley, tra i due ragazzi nasce un tenero amore e promettono di sposarsi. Anche T-Dub si sposa, con Lula (Ann Latham), sorella di Mattie. Occorre però un ultima rapina, quella che potrà consentire ad ognuno dei tre fuorilegge di ritirarsi senza rimpianti dal malaffare.

 

 

L’opera di destrutturazione dei “generi” di Robert Altman passa attraverso il suo innato ed originale talento artistico per approdare ad una cesura consapevole con taluni canoni estetici della “classicità hollywoodiana”, quelli nei cui riguardi si ha ancora una convenzionale e pedissequa devozione. Della sua florida filmografia,“Gang” (dal romanzo “Thieves Like Us” di Edward Anderson, che in precedenza aveva già ispirato Nicholas Ray per il suo “La donna del bandito”) rappresenta uno degli esempi più emblematici in tal senso, a cominciare dalla location, assolutamente insolita per un “gangster movie”, lontano dai centri urbani e dai locali invasi dal fumo di sigaretta coi suoi retrobottega ben nascosti dove si architettano elaborati piani di saccheggio e dove il senso dell’azione è stampata già sulle facce torve di veri professionisti del crimine, ma immerso in un mondo rurale che vive all’ombra della grande depressione, tra gente che aspetta il proprio turno e che è già ben abituata al peggio. Il film si apre con una carrellata iniziale che riprende in campo lungo la campagna che si perde a vista d’occhio, poi arriva un auto che carica i tre evasi. Nei primi momenti della fuga, la macchina da presa indugia molto sui finestrini infangati dell’auto, un espediente che evidentemente è servito ad Altman per chiarire subito il senso di opacità che avvolge l’intera storia, un senso di indistinta complementarità tra eventi generali e fatti particolari, riferito sia ad un paese in piena recessione economica che vede sbiadite tutte le sue migliori speranze, che alla parabola esistenziale delle tre “canaglie” in fuga i quali, di fronte ad un paese momentaneamente in ginocchio, ostentano per contrasto un effimero ottimismo. “Gang” è un “gangster rurale”, avvolto in un inestinguibile cappa di malinconia e percorso da una violenza greve che sembra essere più l’effetto dell’istintiva reazione dell’uomo braccato dalla vita che il frutto maturo di una consapevole genealogia del male. Bowie, Chicamaw e T-Dub sono diventati degli impiegati del crimine perché non hanno saputo imparare altro, rubano banche come se si trattasse di un atto dovuto alla loro povertà e si vantano di essere finiti sui giornali come se fossero diventati della star dello spettacolo. Non sono ne buoni ne cattivi, sono semplicemente dei banditi. I tre delinquenti sanno benissimo che la rispettabilità ha un preciso prezzo di mercato e loro stanno cercando di conquistarsela a suon di rapine (“Non immagini quanti soldi servono per essere onesti”, dice ad un certo punto Bowie). Investendo anche nei sentimenti (T-Dab aiuta Mattie ad aprire un motel e fa vivere Lula come una signora), senza accorgersi che proprio questi potranno tradirli, trasformando la complicità in inganno. Robert Altman fa entrare in rotta di collisione le gesta di piccoli uomini con lo scorrere poderoso della grande storia, mischiando le loro rapine con le speculazioni “legalizzate”, la loro voglia di tenerezza con i sintomi de­leteri di un paese sbandato. Per tal fine, è la radio ad avere un ruolo centralissimo nell'economia del film, così come tutte le forme di pubblicità sparse per il paese (soprattutto quella della Coca Cola, che Keechie beve in grandi quantità). La voce del presidente degli Usa (Franklin Delano Roosevelt, per la cronaca) che perora le ricette “antidepressive” del governo e il tipico "ottimismo" pubblicitario, rappresentano gli elementi consolatori in un mondo in crisi di certezze, elementi che accompagnano le imprese della banda e che sembrano scandirne i tempi del progressivo declino, come se il tutto fosse congegnato alla maniera di un cerchio che dovrà necessariamente chiudersi. Non a caso, i problemi della banda iniziano dopo che T-Dub e Bowie scoprono l’amore (alla fine, Chicamaw è l’unico di cui non si sa di preciso che fine abbia fatto), da quando smettono di muoversi baldanzosamente da una banca e l'altra (che per T-Dab sono sempre di più di quelle effettivamente "visitate") a quando cominciano a pensare concretamente a un domani lontani dal crimine. Da quando si rendono merce spendibile nel mercato indifferenziato dell’informazione (emblematico è il contrasto tra il quadro romanzato che i giornali fanno delle loro vite e l’ordinaria monotonia che effettivamente le contraddistingue) a quando diventono dei clienti scomodi per chiunque. Solo Keechie si salva del tutto, lei ama veramente Bowie. Un finale di commovente lirismo ci restituisce una donna devastata dal dolore mentre tenta di fuggire lontano verso un ignoto altrove. Porta in grembo un figlio illegittimo dell’america. Spera di consegnargli un futuro migliore. Un capolavoro di calma tragicità.

 

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