Regia di Lewis Allen vedi scheda film
Non un capolavoro, ma un film di tutto rispetto che captava qualcosa che in America c'era nell'aria già negli anni 50, e sarebbe cresciuto fino a "Va' e uccidi" del 1962, per giungere poi nella realtà il 22 novembre 1963. Tuttavia, il film è anche - e forse soprattutto - una riflessione morale sulla liceità della violenza e dell'omicidio nelle varie circostanze. Il discorso è anzi piuttosto articolato. Viene condannata senza mezze misure la violenza in guerra, la quale avviene spesso per logiche assurde decise altrove, e considera l'omicidio (anche se plurimo e ispirato da sadismo) come un'azione meritevole di una medaglia al valore. Il personaggio dell'assassino su commissione - un bravo Sinatra - agì perdipiù anche per dimenticare le frustrazioni della sua vita e si allude al fatto che fu poi dimesso dall'esercito per infermità mentale. Gli stessi militari ad un certo punto lo giudicarono eccessivo. "Alcuni provano nell'uccidere il piacere che gli altri provano nel fare l'amore" dice lo sceriffo Sterling Hayden. Quello del gangster - che vede la coscienza come uno stupido impaccio all'azione e l'ha quindi sepolta - è insomma puro sadismo, crudeltà gratuita. C'è però un altro uccidere, quello per legittima difesa (o la mia vita o la tua), quello che evita altre uccisioni, e forse di più: questo è lecito, e anzi doveroso, che è poi anche la morale cristiana. Questo è anche ciò che capisce la donna, la quale, a causa della perdita del marito in guerra, era giunta ad aborrire la violenza di per sé. Quando preme il grilletto alla fine del film mi ricorda molto la stessa azione (e gli stessi scrupoli) di Grace Kelly in "Mezzogiorno di fuoco". Sarà anche vero che quel pazzoide (usato comunque da altri) di Lee Oswald abbia visto questo film poco prima di assassinare Kennedy, ma esso è lontano dal suscitare una qualunque forma di esaltazione o desiderio di emulazione: i tre malviventi finiscono molto male.
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