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Giochi di notte

Regia di Mai Zetterling vedi scheda film

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La recensione su Giochi di notte

di (spopola) 1726792
6 stelle

Ogni stagione ha avuto i suoi “tabù” sessuali, che hanno portato a infierire oltre ogni limite consentito su molte pellicole “ree” di aver preteso di  “oltraggiare” quello che veniva considerato il “comune senso del pudore” (che nessuno però ha mai saputo ben individuare in che cosa potesse davvero consistere proprio perché difficilmente definibile e peggio ancora,  universalizzabile, cangiante e mutevole come è sempre stato e soprattutto “variabile” come  i costumi e i tempi a loro volta in costante evoluzione.)

Va da sé, che dietro si celava più che altro una “velata censura” alle idee che venivano promulgate, molto più scomode di qualche immagine licenziosa, ed era sempre disponibile per questo, qualche solerte funzionario pronto a far scattare all’occorrenza denunce e sequestri se i censori non erano stati adeguatamente efficaci con le loro “sforbiciate” e i loro divieti, nella preventiva valutazione a cui venivano sottoposte le pellicole prima di essere “immesse” sul mercato distributivo.

Giochi di notte (Nattlek in originale) di Mai Zetterling del 1966, è stato in questo senso uno dei casi più eclatanti (un film discutibile ma coraggioso, che dice molte cose ad alta voce e senza paura di scandalizzare come scrisse a suo tempo Gaetano Strazzulla subito dopo la contestata presentazione del film alla Mostra del cinema di Venezia di quell’anno, e c’è da crederlo sulla parola visto che è stato uno della ristretta cerchia che ha potuto visionarlo nella sua integrità).

Di ciò che accadde in tale circostanza, ho già avuto modo di accennare qualcosa quando ho parlato de Gli amorosi, prima fatica della Zetterling di due anni antecedente, anch’esso fortemente e ingiustamente “ridimensionato” dagli interventi censori dell’epoca.

Credo che valga comunque la pena di riportare di nuovo qui di seguito proprio ciò che di singolare si verificò  a proposito di una pellicola certamente in forte odore di “peccato” come questa (“scabrosa” oltre ogni limite del consentito, così la definirono i nostri recensori più osservanti) che fu persino pesantemente osteggiata per la sua provocatorietà scandalosa alla Mostra del Cinema di quell’anno, terreno di norma “più neutro” (era stata selezionata in concorso sotto la attenta guida di Luigi Chiarini, da una seria e collaudata compagine di esperti formata da Giulio Cesare Castello, G.B. Cavallaro, Tullio Kezich e Leo Pestelli che non furono però sufficienti  a salvarla dagli strali del perbenismo di facciata dei benpensanti) tanto che per non turbare il comune senso del pudore dei normali spettatori in sala, (quanta ipocrisia ci sta dietro a tutto questo!!!!) si fu costretti a proiettarla anche lì a “porte chiuse” solo per giuria e giornalisti, e questo semplicemente - o a causa - di una scena di masturbazione (che non sapremo mai, noi comuni mortali, come era davvero fatta, perché nella copia italiana poi passata per le sale, ridotta da 105’ a 96’, non ne è rimasta  traccia alcuna). Poiché una “masturbazione” per quanto dettagliata non può durare così a lungo soprattutto cinematograficamente parlando, è chiaro che gli interventi censori non si limitarono solo a quell’episodio e che di conseguenza ciò che fu distribuito in visione fu fortemente rimaneggiato, così da alterarne profondamente la fisionomia e il senso, il che rende difficile anche esprimere una valutazione “oggettiva” di fronte a una pellicola tanto martoriata e “distorta”.

Certamente per quel che si può vedere, rispetto a Gli amorosi risulterebbe (il condizionale è d’obbligo) un po’ meno compatta, e soprattutto un po’ più ossessivamente concentrata sui problemi psicologici strettamente legati al sesso, con un voyeurismo forse davvero un tantino insistito (anche se adesso l’insieme può sembrare tutto sommato molto casto e soprattutto tutt’altro che “disturbante”).

Mai come in questo caso allora, è necessario rapportare il film al periodo e al “clima” dei tempi in cui è stato pensato e girato, poiché occorre sempre tener presente che il cinema (come ogni altra opera più o meno artistica, ma non solo) è il prodotto di una certa società e non lo si può mai giudicare in astratto, senza prima averne analizzato (valutato) le componenti economiche, politiche, industriali e sociali (Flavio Ruffatto) che lo hanno generato. Nel caso specifico è  certamente prioritario l’aspetto “sociale” dell’opera (in relazione alla sua evoluzione ovviamente) che va sottolineato, e credo che proprio se si tiene conto di un’ ottica di questo tipo (il  tentativo fruttuoso di spostare in avanti la disponibilità ad accettare e confrontarsi con certe tematiche un po’ “sgradevoli”) ci è più facile riconoscere alla regista per lo meno il merito di aver tentato di “aprire le menti” davanti a problemi nascosti, ma terribilmente “castranti”, mantenuti segreti dal ferreo bigottismo oscurantista della morale imperante.

Particolarmente avversato dalla critica cattolica che davvero ne disse peste e corna, e che fu sempre “tranciante” nei suoi confronti e tutt’altro che conciliante anche quando, come nel caso di L. Bini, ci fu per lo meno un tentativo di parlarne senza emettere semplicemente un “aprioristico” rifiuto( La crudezza del film è una crudezza di accento che, a parte le esasperazioni visive, oltre ad essere psicologicamente meno corrosiva dell’erotismo velleitario e sornione di cui si ammantano certi exploit cinematografici italiani e francesi, talora cristallizza con sguardo acuto e tagliente, in tutta la loro disumanità, situazioni e comportamenti ripugnanti. Riesce però cronicamente inetta e incapace di captare l’evolversi e il precipitare degli stati d’animo, e tanto meno, a situarli in un contesto sociale vivo e solido così da privilegiare soprattutto gli aspetti più torbidi frutto di un calcolato opportunismo è ciò che scrisse al riguardo), rimane bollato da sempre come esempio di film un po’ “amorale”..

Giochi di notte, come ho già detto, non è ovviamente un capolavoro (credo non lo fosse nemmeno nella sua veste originaria). E’ un’opera certamente non esente da difetti, errori, smagliature, vere e proprie cadute, ma che testimonia l’impegno appassionato della sua autrice nei confronti della società di quegli anni e delle sue strutture, oltre che dei condizionamenti anche ideologici ad essa legati. Rappresenta soprattutto un interessante spaccato dello stato di alienazione e di crescente disagio e confusione dottrinale, sentimentale e spirituale, di un mondo in “movimento” come quello degli anni in cui è ambientato. La Zetterling ha dunque dichiaratamente voluto stigmatizzare il suo pensiero critico, portando alle estreme conseguenze la sua provocazione, proprio su quella società decadente, estremamente edonista e degenerata, che era già – e così lei la percepiva - sull’orlo del precipizio di una “deflagrazione” totale  ormai inevitabile (come poi dimostreranno di lì a pochi anni, le trasformazioni epocali delle rivoluzioni “sessantottine”).

Lo fa  guardandosi interno con occhi un pò attoniti e abbastanza “indiscreti”,  utilizzando accenti così “forti” da risultare persino un po’ apocalittici, ma sorretti da un sotterraneo, incontenibile furore iconoclasta. E’ “quella” società che personifica e raffigura proprio attraverso l’egocentrica e arida madre del protagonista, la “dannata” Irene, oltre che nei parassiti e depravati figuri che la circondano in un’orgia continua, quasi estenuante, che intende esporre al pubblico ludibrio della condanna di un giudizio inappellabilmente “negativo”, e per farlo, per raggiungere il suo scopo, non può che realizzare un film zeppo di  “indispensabili” torbide atmosfere (omosessualità, incesto, necrofilia, onanismo e masochismo sono i temi “proibiti” che tocca e “intacca”), ma senza mai speculare davvero sui vizi dei suoi corrotti personaggi. Emerge soprattutto la sua appassionata determinazione nel condurre, certamente “a suo modo”, una battaglia anche etica, colpendo per questo le strutture portanti di un mondo degradato, portando alla luce ciò che di più indecoroso e nauseante impone a tutti, tenendolo spesso celato dietro un inappuntabile perbenismo di facciata.

Discorso dunque fortemente moralistico il suo, se si vuole, tutt’altro che lassista come volevano intendere i difensori del “decoro” però, anche se  circoscritto (e questo era quello che non gli potevano assolutamente perdonare)  e rapportato principalmente alla sfera del sesso e alla sua indispensabile e un po’ laida “demistificazione” realizzata utilizzando eccessi e devianze.

Costruito sull’asse di un racconto “contemporaneo” nel quale sono incastonati alcuni flashback esplicativi (il passato ancora presente, il trauma da superare e rinnegare, secondo una tecnica di introspezione  psicoanalitica di derivazione freudiana), il film, ricavato portando sullo schermo un  precedente lavoro realizzato dalla Zetterling in forma di romanzo, non risparmia nulla di ciò che vuol dire: perversioni, sofferenze, strazi, e disperazioni comprese.

Il protagonista, Jan, è seguito alternativamente dall’età della sua adolescenza a quando, ormai adulto, si troverà incapace di consumare il matrimonio con la giovane e bella moglie, Marianna. Ne è impedito dal ricordo ossessivo e straziante della madre, e dei rapporti che lo legano ancora a lei (compresi anche quei “peccaminosi giochi di notte” a cui allude la titolazione italiana). Solo quando farà saltare con la dinamite il castello, luogo della sua tormentata adolescenza e teatro della sua iniziazione sentimentale e sessuale, e avrà allontanato i loschi figuri che lo hanno educato, Jan si libererà del trauma che lo paralizzava riuscendo così a rinormalizzare la sua attività “amatoria” del presente e a ritrovare la sua dignità di uomo.

Jan ci viene dunque rappresentato come uno dei tanti  personaggi che  una particolarissima adolescenza disturbata ha rischiato alla fine di rendere “un uomo a metà”, e per meglio farci comprendere il suo punto di vista, la regista si serve soprattutto del contributo, anche “fisico” degli interpreti. Heve Hjelm, che incarna Jan da adulto, discende da una famiglia di collaudati  attori svedesi, ed ha tutte le caratteristiche per “rappresentare” anche figurativamente parlando, le simbologie un po’ codificate dei problemi legati ai tormentati e irrisolti conflitti sessuali del suo passato. Scavato e un po’ “anonimo”,  sostanzialmente tendente alla nevrosi, con quelle occhiaie profonde e  le spalle scheletriche, sembra davvero incapace di sopportare e sorreggere le conseguenze dei complicati  rapporti iniziatici dell’infanzia, quegli  intrighi erotici di difficile  elaborazione  che riemergono prepotenti da  ricordi lontani, ma mai completamente metabolizzati che lo tormentano e lo limitano, e che le vicende cinematografiche srotolano a piene mani e con dovizia di particolari.

Immerso in un cupo realismo che può ricordare (alla lontana)  il cinema di Sjöström e di Stiller  (e soprattutto di Bergman),  si inserisce indiscutibilmente nella collaudata scia un po’ canonicizzata di un cinema  fortemente legato alla lezione dei “grandi” di quel paese soprattutto per quanto riguarda la “forma”,  che tende ad esporre, enfatizzandoli un po’,  contenuti un po’ estremizzati., ed  è un film di cruda e potente espressività che però, almeno guardando ciò “che a noi resta da visionare”, soffre  di uno scompenso strutturale fra i due momenti (e le due età) che ci vengono  rappresentati sullo schermo.

Il piccolo e il grande Jan (il protagonista adulto e la sua più acerba controfigura della memoria)  l’uno vittima di una madre irresponsabile, l’altro fiducioso scolaro di una fidanzata ostinata, sono stimolanti ritratti maschili, anche se, come si è visto, portati ai margini di una ossessiva visione estetizzante e dichiaratamente condizionati in maniera conflittuale da un matriarcato opprimente, ambiguo e un po’ inquietante, ma risultano essere due facce non sufficientemente omogenee di una stessa medaglia.

La natura femminile della regista, il suo esse a sua volta una dichiarata e convinta femminista ante litteram mi fa supporre infatti che l’abbia portata – proprio a causa di tale ottica un po’ di parte - a caricare il Jan adulto, ricco e complessato, di una valenza simbolica troppo accentuata e un po’ programmatica che gli sottrae gran parte di quella umanità e sofferenza di cui avrebbe invece avuto bisogno per crescere e stratificarsi “dentro” la coscienza dello spettatore, e che è invece presente nei ricordi della sua infanzia che gli altri hanno reso un po’ “dannata”.

Non a caso infatti, la pena per la solitudine di Jean-bambino (l’ottimo Jörgen Lindström) giustificata da ogni gesto della madre fatua e acre, non per circostanze reali, ma soprattutto per capricci di censo (resa magistralmente da una intensa  Ingrid Thulin) e sottolineata dalla presenza della vecchia zia Astrid (le cui stranezze sono invece singolarmente quasi “riscattate” da una infinita dolcezza) non trova equivalente contrapposizione nella pietà per l’uomo adulto, privato dai ricordi, dei suoi diritti di amante. L’accentuazione della sgradevolezza del Jan della maturità da parte dell’attore che ce lo riproduce, è dunque intenzionale (e non intende certo giovare alla simpatia del personaggio) ma l’insistere senza eccezioni, quasi automatico, in tale direzione, limita un po’ il risultato, o almeno lo meccanicizza alquanto, rendendo poi  troppo simbolicamente accessibile  attraverso quel “gesto estremo”, la soluzione immediata di ogni freudiano complesso che lo opprimeva, che viene a privare il percorso di un resoconto chiarificatore di un indubbio lavoro anche ricostruttivo che allude a quel ritrovato equilibrio interiore, invero un po’ troppo affrettato.

Nonostante le forti riserve, più o meno tutti, se si escludono i più ostinati detrattori, diedero comunque atto alla Zetterling di un impegno e una schiettezza inusuale, anche se non mancarono di rimproverarle troppe inutili e sottolineate concessioni all’osceno (io non ne ho francamente trovate, al di là dell’insistenza tematica, e non credo che ciò dipenda soltanto dal fatto che l’edizione è quella purgata) perché mi sembra che siano situazioni  che mirano invece a condannare l’ideologia dell’oppressione materna sui figli, e che proprio in questo suo essere stata  così esplicitamente provocatoria, la regista sia riuscita ad articolare il discorso con particolare incisività.

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