Regia di Luchino Visconti vedi scheda film
La poetica del romanzo “Lo straniero” di Albert Camus è un nichilismo affollato di pensieri e sensazioni, colmato da un realismo sovraccarico, in cui ogni dettaglio si sviluppa in catene di metafore, che fanno da ponte tra il passato e il presente, tra il concreto e l’astratto, tra il particolare e il generale. Visconti realizza, sullo schermo, la vaga e sofferta impronta visiva di una storia che vive tutta dentro l’anima, al di sopra degli oggetti e degli ambienti, che sorvola con il distacco di chi guarda, non capisce, però accetta senza condizioni. La sua cinematografia, del resto, è pervasa di atmosfere sbiadite e lontane, che circondano il tutto come un alone impersonale: i personaggi vi si sovrappongono, apparentemente, come figurine appiccicate a forza, refrattarie a quello sfondo così freddo e anodino, eppure, in effetti, intimamente macerate dal crudele vento del nulla. La vuota rigidità di quest’opera è la stilizzazione incolore di un racconto che, insistentemente, sospinge il lettore via dalle situazioni narrate, per portarlo verso una dimensione distante e confusa, da cui tutto appare incerto, forse assurdo, e comunque inutile. Questo costante movimento alla deriva impedisce ad ogni azione di mettere, nel terreno narrativo, la radice di un perché: lo scollamento diventa così l’unico filo conduttore di un film che è un tenue e disarmonico acquerello, dipinto, sulla carta umida, dalla tremolante e indifferente mano del caso. La rigorosa fedeltà alla fonte letteraria, che costringe le scene a riprodurre l’originale in copia conforme, e obbliga i personaggi a cogliere, faticosamente, fra le righe, i brandelli di un copione, fa parte integrante della durezza di una vicenda che, nella sostanza dei fatti come nella forma della sua trasposizione artistica, vede strappare, ad un’aridissima realtà, i secchi tuberi dell’irrimediabile male di vivere.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta