Regia di Domenico Paolella vedi scheda film
Muscoloni dappertutto, combattimenti all'arma bianca o a mani nude, buffi nani e coccodrilli famelici (imperdibile la lotta subacquea con il protagonista, apice trash della pellicola), energumeni che evadono piegando le sbarre della prigione, che sollevano enormi macigni o tronchi d'albero con estrema facilità; tutto questo più il lieto fine 'rosa' (le vicende d'azione si mischiano sempre con una storia sentimentale, in questo tipo di pellicole), in una contestualizzazione storico-geografica improbabile nella sua sciatteria e approssimazione. Eccovi servito Maciste nell'inferno di Gengis Kahn, ennesimo peplum che cerca di svecchiare il genere - o quantomeno non sovrapporsi ai cento lavori simili che uscivano a raffica in quegli anni - inserendo nella trama un eroe pseudomitologico e un feroce guerriero dell'estremo oriente; inutile dirlo, il risultato è davvero misero. Ma a quei tempi nel nostro cinema funzionava così ed è inevitabile il rimpianto per queste operine di mezzi scarsissimi e mestiere appena sufficiente. La sceneggiatura è del regista, di Luciano Martino e di Alessandro Ferraù; Mark Forest è il protagonista, già più volte impiegato per il ruolo di Maciste nei mesi e negli anni precedenti; di Paolella c'è poco da dire: viaggiava mediamente a 2 o 3 film licenziati all'anno e in quel periodo si era specializzato nel prodotto che andava per la maggiore al botteghino, cioè il peplum e il cappa & spada. Gloria Milland, Ken Clark e Roldano Lupi (Gengis Kahn) sono gli altri nomi 'di rilievo'. La trascuratezza contenutistica del lavoro si rivela anche soltanto dal finale: una volta cacciati dalla Polonia, i mongoli decidono - con le pive nel sacco - in maniera del tutto insensata di tornare in Mongolia, pur avendo conquistato la Russia e altri immensi territori che li separano dalla terra d'origine. Bah! 2/10.
XII secolo. Maciste deve fermare l'avanzata dei mongoli che, capitanati dal terribile Gengis Kahn, sono arrivati dall'estremo oriente fino alla Polonia.
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