Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
“Thomas, che aria triste che hai!”.
“Hanno rotto il mio cavallo a dondolo”.
“Povero Thomas... Ma tu hai me, non posso consolarti un po'?”.
“Ma non vedi che catastrofe è questa?”.
“Mio caro Thomas, stiamo sognando, ed è per questo che oso parlarti così e dirti cose che non ti direi mai da sveglio”.
[Doris Svedlund e Birger Malmsten]
Nel prologo di La prigione, lapidaria dichiarazione di poetica e straordinario incipit del film, Ingmar Bergman presenta il cuore pulsante del suo cinema, anticipandone e riassumendone gran parte dei temi prediletti.
Prologo. Un set cinematografico: il regista Martin (Hasse Ekman) riceve la visita del professor Paul (Anders Henrikson), suo vecchio professore di matematica, da poco dimesso da una clinica psichiatrica e venuto a proporgli un soggetto per un film. Racconta subito la sua idea, “un film sull'inferno e il diavolo”, durante una pausa delle riprese:
“Il film potrebbe cominciare con un proclama lanciato da parte del diavolo: In questo giorno in cui prendo il comando e il dominio assoluto di tutti i paesi abitati della Terra, ordino che tutto rimanga nel medesimo stato in cui è rimasto fino a ora. La bomba atomica sarà proibita (non userò davvero un'arma di distruzione tanto facile...) e tutti coloro che hanno costruito e sperimentato una bomba atomica, saranno condotti davanti a un'alta corte e condannati a morte come nemici dell'umanità”.
“E che cosa ne sarebbe della nostra generazione, di noi a cui manca tutto, perfino il caos e che siamo come fazzoletti nel cilindro di un illusionista?”.
“Vi voglio dare un consiglio: dopo la vita viene la morte, non avete bisogno di sapere altro, no? E allora chi è sentimentale o pauroso può sempre cercare rifugio in braccio alla chiesa e chi è annoiato o stanco o indifferente si può sempre sucidare”.
“Ma allora il diavolo non chiuderebbe tutte le chiese e non proibirebbe le religioni?”.
“Al contrario: sosterrebbe l'interesse degli uomini verso tutte le religioni e le chiese, che da tanto e con tanta efficacia è servito al successo del diavolo”.
“In un film così non si dovrebbero usare mai parole come il bene e il male, il peccato e la corruzione?”.
“Sarebbe un errore privare il pubblico di questi solidi concetti, io non ho mai pensato di farlo”.
“E che scopo avrebbe il diavolo? Ogni grande politico ha uno scopo o almeno un programma”.
“Il diavolo non ha mai programmi: è questo il segreto del suo successo e io ho immaginato che il suo antagonista abbia perduto perchè ne aveva troppi”.
“E allora sarebbe questa la causa della vittoria del maligno?”.
“Ma non capisco perchè lei lo chiami maligno: la gente sa che il diavolo non vuole fare altro che il bene. Ogni sua azione non è forse rivolta a soddisfare i nostri desideri più intimi e segreti?”.
“Ma qualcuno avrà pur creato questi desideri!”.
“È stato il diavolo”.
“E Dio sarebbe abolito?”.
“Dio è già morto, o è stato ridotto al silenzio, che è lo stesso. Sarete d'accordo che è molto più semplice metterla così, ma ora non vorrei scivolare nell'ironia. Guardate come la vita si estenda in un arco di tempo crudele ma voluttuoso, dalla nascita alla morte: un grande capolavoro, comico e tragico, magnifico e orribile, privo tanto di clemenza quanto di scopo. E così è anche il diavolo, benchè sia per la maggior parte solo un simbolo, un'allegoria”.
Martin discute l'idea del professore con il suo amico Thomas (Birger Malmsten), giornalista, scrittore e sceneggiatore, sposato con Sofi (Eva Henning): “Per lui la Terra è uguale all'inferno e il dominio del diavolo è già una realtà. E vorrebbe che tutti riconoscessero questa realtà”. Martin, però, che sta per concludere le riprese del suo ultimo film, è in procinto di partire per un viaggio in Giamaica e non intende farne nulla, ma l'argomento scatena l'interesse di Thomas, che ha già individuato tra i suoi appunti un personaggio adatto per il film: si tratta della prostituta Birgitta (Doris Svedlund), reminiscenza autobiografica del suo recente passato, il cui ricordo ancora ingelosisce Sofi. Nel flashback che rievoca l'episodio dell'incontro con la ragazza, Thomas va a far visita a Birgitta per un'inchiesta sulla vita notturna di Stoccolma: da lei, però, apprende soltanto che ha un fidanzato, Peter (Stig Olin), che si appropria di quasi tutti i suoi guadagni, e una sorella, Linnea (Irma Christenson), ma nulla riesce a carpirle sui motivi che l'hanno spinta a prostituirsi in casa per i suoi danarosi clienti. Fine del prologo.
Voce off: “Immaginiamo che siano passati circa sei mesi tra il prologo e le vicende che ora si svolgeranno: eccola lì, la nostra Birgitta Soederberg”. Era incinta e, dopo aver partorito, viene convinta da Peter ad affidare la bambina appena nata a Linnea. La storia di Birgitta si alterna, ora, con le vicende di Martin, impegnato nelle riprese del suo film e testimone impotente della crisi matrimoniale che sconvolge Thomas e Sofi: durante una drammatica serata, Thomas tenta di uccidere Sofi, che, incredula per la piega presa dagli eventi, è costretta a ferire il marito e ad abbandonarlo. Birgitta, invece, proprio durante la notte in cui riesce a scampare a una retata della polizia, incontra Thomas, ancora devastato dal senso di colpa: decidono di fuggire insieme dagli inferni delle rispettive esistenze e si trasferiscono nella pensione della signora Bohlin (Marianne Löfgren), dove si concedono una parentesi di felicità e assistono ai tormenti di Anna (Bibi Lindqvist), la nipote della padrona di casa, rimasta incinta troppo giovane. Quando Birgitta confessa a Thomas il desiderio di riprendersi sua figlia, lo scrittore non esita ad accompagnarla da Linnea: non sanno, però, né che la donna ha ucciso la neonata, né che Peter, suo complice, sta ricattando Sofi, ancora innamorata del marito, promettendole che non denuncerà Thomas alla polizia con l'accusa di aver ucciso lui la bambina, se potrà riavere la sua Birgitta. L'idillio si spezza: Birgitta, con la morte nel cuore, torna da Peter e poi si uccide; Thomas, invece, chiede perdono a Sofi impegnandosi a salvare il loro matrimonio. Sul set del film, Martin riceve di nuovo la visita del suo professore di matematica:
“Allora, hai pensato alla mia idea?”.
“Sì, ma non si può realizzare”.
“No? E perchè?”.
“Un film così finirebbe con un interrogativo pieno di angosce e nessuno lo vorrebbe fare”.
“Un interrogativo?”.
“Un interrogativo sul nostro pianeta, su di lei, me, la povera Birgitta, sulla maggior parte della gente”.
“E a chi andrebbe rivolto questo interrogativo?”.
“Non c'è nessuno a cui rivolgerlo. Sempre che non si creda in Dio...”.
“E tu non ci credi. O forse ci credi?”.
“No, è impossibile. E poi sarebbe facile”.
Nessuna via d'uscita, quindi.
“Posso spegnere le luci?”.
“Sì, stiamo andando via”.
“Buonanotte!”.
“Buonanotte”.
Buio.
La lavorazione di La prigione ha inizio nell'estate del 1948, quando Ingmar Bergman scrive un racconto con protagonista un personaggio femminile, Birgitta Carolina, vittima di un tragico destino: il titolo (Storia vera) alludeva ai resoconti di episodi di cronaca nera che popolavano le pagine dei rotocalchi settimanali in voga nel periodo. Racconta Bergman (da Immagini, 1991, edito in Italia da Garzanti nel 1992): “Il film lo volevo così: giri sfrenati tra la sentimentalità impura e i veri sentimenti. Ero molto contento del titolo del film, che trovavo finemente ironico. Ma il mio produttore Lorens Marmstedt, che sapeva tutto sul pubblico dei cinema svedesi, disse che la gente non capisce l'ironia e alla fine si scoccia soltanto. Mi pregò di trovare perciò un altro titolo. Diventò così prima La prigione e infine Prigione, un titolo tipico degli anni Quaranta e sicuramente e senz'altro molto peggiore di Storia vera”. Sull'onda del successo ottenuto a ottobre alla prima di Città portuale, Bergman completa in autunno la stesura della sceneggiatura, consapevole che sarebbe stata respinta dalla Svensk Filmindustri: il produttore indipendente Lorens Marmstedt la accoglie, invece, con entusiasmo (ancora da Immagini, edizione citata: “Le paghe non possono essere le solite, questo è un film artistico, bisogna sacrificarsi un po' per l'Arte!”) e avvia la lavorazione del film, rigorosamente a basso costo: le riprese iniziano il 16 novembre e la prima proiezione pubblica del film, salutata dal plauso della critica nonostante gli scarsi riscontri al botteghino, avviene il 19 marzo 1949.
Sesta regia di Ingmar Bergman, la prima tratta da una sceneggiatura originale dell'autore, La prigione costituisce, oltre che l'ultima collaborazione con il produttore Lorens Marmstedt (per il quale aveva girato Piove sul nostro amore, La terra del desiderio e Musica nel buio), il lavoro più riuscito e personale del maestro svedese realizzato fino a quel momento della carriera: appare più che evidente, infatti, quanto ogni ossessione e ogni futura esplorazione narrativa del regista, sia da un punto di vista tematico che drammaturgico, vengano già affrontate e proposte, seppur in nuce e con alcune giovanili incertezze, in questa brevissima (poco più di un'ora e dieci minuti di durata) ma folgorante pellicola. La confusione tra finzione e realtà, il film nel film, la lanterna magica (la farsa proiettata in soffitta da Thomas e Birgitta, eseguita da un trio di acrobati italiani, i Fratelli Bragazzi, scritturati da Bergman per ricreare le esilaranti comiche del cinema muto), il sogno (la lunga e suggestiva sequenza onirica), l'aspirazione umana alla felicità, il suicidio, le gioie e i tormenti dell'amore (rappresentati non solo dalle vicende dei personaggi principali: si osservino, infatti, le figure di Anna, la nipote della signora Bohlin, e del suo giovane fidanzato, alle prese con il dramma di una gravidanza giunta troppo presto, tratteggiati da Bergman come i protagonisti dei suoi film precedenti, mentre, nella disperazione, si sostengono l'uno con l'altro aggrappandosi soltanto alla forza del loro amore), la crisi matrimoniale, la maternità, l'infanzia, il silenzio di Dio, la Morte (che appare qui, come personaggio, per la prima volta nel cinema di Bergman, all'interno della farsa eseguita dagli acrobati), il diavolo, la fuga e poi tutte quelle soluzioni stilistiche e formali già adottate in passato da Bergman ma qui rese con maggiore efficacia, ovvero l'uso del flashback, i primi piani dei volti (a beneficiarne, qui, è soprattutto Doris Svedlund), la cura nella composizione delle inquadrature, il gusto nella scelta degli esterni naturali, una raggiunta padronanza nella gestione dei movimenti della macchina da presa, i giochi di luci e ombre della fotografia, la predilezione per l'allegoria, l'astrazione metaforica e i simbolismi (disseminati lungo tutto l'arco del film a partire sin dal titolo, chiaramente riconoscibili, ad esempio, nella sequenza del suicidio di Birgitta, con l'ombra delle grate sul muro a evocare la fuga da quella prigione che era ormai diventata la sua vita).
Sapientemente orchestrata sui magistrali incastri dei flashback che regolano le evoluzioni del racconto, incorniciata nei meravigliosi chiaroscuri della fotografia di Göran Strindberg (anche lui alla quarta e ultima collaborazione con Bergman), magnifica sia nel cogliere il fascino degli splendidi scorci cittadini (la sequenza in esterni sulle rive del fiume, ad esempio), che nell'esaltare con lampi di luce e ombre tenebrose i volti dei personaggi e gli ambienti, La prigione è un'opera vitale anche e soprattutto nell'esuberanza delle sue imperfezioni, sempre condotta sul filo dell'eccesso, spesso schematica e ridondante nel suo fatalismo, ma follemente scossa dagli improvvisi e fiammeggianti sussulti del melodramma (Thomas, ubriaco e fuori di sé, che propone a Sofi di suicidarsi, lei che per salvarsi lo colpisce con una bottigliata in testa) per poi immergersi improvvisamente in atmosfere oscure e malsane, magicamente sospese tra sogno e realtà.
In termini di fascino e riuscita spettacolare, infine, ulteriore smalto è apportato al film dall'impeccabile contributo degli interpreti, sottolineato anche dallo stesso Bergman (ancora da Immagini, edizione citata): “Hasse Ekman fu pienamente leale e disponibile. Eva Henning apportò al film un tono di puro dolore del tutto inatteso […]. Anche Doris Svedlund nella parte di Birgitta Carolina è amabile. Per me era importante che lei non sembrasse la tipica prostituta del cinema svedese. Prigione è un gioco su un'anima e lei è l'anima. Doris brillò di una propria luce misteriosa”.
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