Regia di Andrej Konchalovskij vedi scheda film
Un film vietato in Unione Sovietica per ventidue anni. E per mille motivi. Tanti quanti gli elementi incuranti dei principi dell’estetica e della disciplina che ne popolano le immagini e la storia. La protagonista è la giovane dipendente di un collettivo agricolo, che aspetta un figlio pur non essendo sposata e pur non avendo alcuna intenzione di convolare a nozze. La sua ribellione di donna indipendente si svolge in un clima infinitamente lontano dalle celebrazioni di regime, nel quale anche l’allegria e la convivialità sono contaminate dalla stanchezza, dalla perdita di senso, e in cui affiorano sentimenti antimilitaristi e accenni di sogni occidentali. Il lavoro e la guerra non sono più i teatri della gloria, perché lì abitano individui infelici: un giovane innamorato deluso e divenuto violento, un orfano giocherellone che vorrebbe smettere di fare il contadino per diventare artista in un circo, un anziano ex prigioniero politico, costretto a faticare fino allo sfinimento, un reduce tornato dal campo di battaglia con una mano ormai inservibile, un caposquadra affetto da un evidente handicap fisico. La stessa Asya suscita più compassione che altro, con quella gamba rigida che trascina con gran pena sotto quella pancia sempre più sporgente. È una bella donna sacrificata ad un mondo che non funziona tanto bene, in cui ci sono le regole ma non le risorse, il rigore ma non il benessere, la disciplina ma non la pace. Sotto la grande ombra del potere di Brezhnev, il popolo appare come un branco di cani senza padrone, che si agitano un po’ e si muovono in ordine sparso, sfogando, nei modi più disparati, una tensione che non riesce mai ad organizzarsi in rivolta. D’altronde, in questo quadro, la questione politica è relegata in secondo piano (il che, rispetto all’establishment politico di allora, è forse un affronto ancora più grave): è ridotta a fare da sfondo ad una situazione di scontentezza generale, in cui sono prevalentemente i problemi personali a determinare gli stati d’animo ed il corso degli eventi. Questi personaggi lontani dalla storia in senso leninista, che fanno del loro kolkhoz un bizzarro microcosmo dotato di vita propria, sono un’aperta sfida al centralismo, alla pianificazione, alla coscienza nazionale, per il modo in cui dimenticano l’utopia marxista per abbandonarsi allo sconforto, e la spavalderia con cui si lasciano trascinare da una gioia intinta in una follia che grida sguaiatamente alla libertà. In questo secondo lungometraggio di Andrei Konchalovskij, il realismo sociale si esprime attraverso l’interpretazione, in forma drammaturgica, del pessimismo di gruppo, che si espande, senza soluzione di continuità, dalla riflessione sul passato alle considerazioni sul futuro. Si può cercare di essere diversi, di disallinearsi rispetto ai modelli imposti dall’alto, ma questo tentativo si esaurisce in un breve ed ingenuo volo della fantasia, che termina improvvisamente per effetto di un ordine che sancisce un trasferimento forzato, oppure una chiamata alle armi. Lo sradicamento dalla famiglia, dalla compagnia degli amici, dalla terra suggella un sistema ideologico in cui niente e nessuno deve possedere alcunché: viene negata anche la naturale appartenenza a quel piccolo universo che ognuno di noi chiama la sua vita, e si manifesta negli affetti e nelle abitudini, e prosegue dentro il cuore, attraverso i sogni e le passioni Questa pellicola è animata dalla primitiva inquietudine dell’umanità, quella che la rende multiforme e creativa, sensibile alle sfumature del pensiero e alle tonalità delle emozioni. La verità ama sporcare il volto della perfezione con le sue smorfie plastiche e irregolari, con i suoi schizzi di inchiostro e le sue avventate scritture: anche il monologo diviene parte di questo gioco improvvisato ma non troppo, in cui gli attori non professionisti recitano davvero, ed ogni sbavatura del discorso ha la ricercata dignità pittorica di uno scarabocchio arabescato. In questo film la spontaneità parla il linguaggio elaborato della letteratura intimista, e la trasgressione è nobilmente avvolta nell’ancestrale veste artistica della fallibilità e della debolezza umana. I contadini desiderano e soffrono, ambiscono e sbagliano, ognuno per suo conto, piangendo di rabbia e di dolore indipendentemente dalle notizie scritte sul giornale, e dagli echi dei cannoni che si avvertono in lontananza. Lo sfondo, comunque, rimane sempre indifferente, distaccato dalla scena: la terra non si fa più morbida e pulita quando una donna vi si adagia per dare alla luce una bambino, né si fa meno fredda e umida quando, invece, è un uomo morto ad affidarle il suo corpo.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta