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Wolf Creek

Regia di Greg McLean vedi scheda film

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La recensione su Wolf Creek

di scapigliato
8 stelle

Con Wolf Creek Greg McLean aggiorna gli elementi base dell’horror australiano alla modernità del terzo millennio, ispirandosi ai classici del new horror carnale e rurale dell’America anni settanta. Con pochi personaggi e un'ambientazione claustrofobica nonostante l’ampio respiro dei paesaggi, vasti e imponenti, McLean punta in alto e vince la partita.

Wolf Creek è la conferma che la scrittura del terrore non conosce vincoli di forma e tutto può trasformarsi in incubo. Quasi come fosse un manifesto di genere, il film di McLean contiene le funzioni base del cinema horror e i nuclei tematici cari al genere: giovani ragazzi protagonisti, eccessi e sballi trasgressivi, il viaggio, la deviazione/infrazione, l'immersione nella natura, lo psicopatico dalla lama facile – e anche dal grilletto, in questo caso, la degenerazione umana dei luoghi dimenticati – che non è più un'esclusiva americana, il contatto con la bestialità, il sangue, le mutilazioni, la morte, la notte, l'alba e quindi la salvezza – tutti archetipi hooperiani derivati da Non aprite quella porta (1974).

Sorprende anche che per una volta tanto non è la femmina ad essere la protagonista, prima vittima e poi eroina, di un film horror. E il cambio del punto di vista, da femminile a maschile, oltre che a spiazzare narrativamente in corso di visione, si avverte come una felice novità tematica. Un’altra contravvenzione al canone slasher è la mancanza di un vero body-count e di una coreografia più o meno bizzarra dei delitti. McLean insegue piuttosto la morbosità del torture porn e gioca a vivisezionare letteralmente i pochi corpi a disposizione, in una continua e inquietante discesa infernale.

Inoltre in Wolf Creek abbiamo inserti narrativi presi da altri luoghi cinematografici come l’on the road e il suo alter ego stevensoniano, il road thriller, in cui il local australiano insegue una delle sue vittime in macchina non meno efficacemente che in Duel (1973), The Hitcher (1986), Radio Killer (2002), Highwaymen (2004) o gli australiani Roadgames (1981) e Road Kill (2010). Indicativo infine, il fatto che il primo nome dei credits sia John Jarrat, il pazzo maniaco, un vero Mr. Crocodile Dundee al contrario, a conferma dell’intenzione autoriale alla base della pellicola.

A dieci anni di distanza, il regista rincara la dose e aggiusta il tiro, e con Wolf Creek 2 celebra questa rielaborazione di temi e motivi dell’horror rurale firmando un capolavoro di genere, superiore anche al primo capitolo. Se il primo Wolf Creek rilegge da una prospettiva autoctona il modello narrativo dell’horror rurale e carnale degli anni ’70, Wolf Creek 2 prende a piene mani da una ritrovata fascinazione/ossessione per la natura incontaminata, l’ambiente selvaggio, uomini e comunità marginali se non addirittura primitive e l’immancabile referente animale in funzione di collegamento entozoologico e srotola i moduli narrativi lungo un intreccio di tipo itinerante e impostando questo secondo capitolo più sul road thriller che sull’horror hooperiano di tipo assediale.

Proprio grazie a questa tipologia di procedimento strutturale dell’intreccio, Greg McLean si diverte a comporre la sua catàbasi passando da un topos all’altro con estrema facilità e con gran mestiere. L’attacco splatter lascia il posto alle vacanze dei due turisti tedeschi riassunte nei titoli di testa sotto Born to Be Wild e poi diventa un camp horror dall’estetica torture; in seguito spiazza cambiando nuovamente il punto di vista come nel capitolo precedente e si trasforma in un ottimo road thriller con tanto di mattanza di canguri che fa molto Wake in Fright (1971) e riallaccia tra loro le pulsioni oscure dell’Australia a distanza di quasi mezzo secolo. Prima di diventare un horror di tipo assediale giocato sull’intuizione della coppia Wan/Whannell, ovvero il death test, il gioco mortale tra vittima e aguzzino di Saw (2004), Wolf Creek 2 diventa anche un western e alla fine si immerge nelle catacombe sotterranee di un paese e di una cultura, quella occidentale di base anglosassone, che ama nascondere i propri cadaveri putrescenti sotto il tappeto. Tanto humor nero e aussie, e una chiusa spiazzante, lontana dalle aspettative. McLean si conferma un ottimo regista di genere, e se John Jarratt è puntuale nella resa del suo character, Ryan Corr è semplicemente perfetto.

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