Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
La generosità, nel cinema di Kim Ki-duk, è sempre stata l’equilibrio al nero più nichilista. Era così in Bad Guy, La samaritana, Ferro 3. Con L’arco, il regista coreano si apre ancora di più a spiragli pietosi, in quanto nessuno dei tre personaggi principali, né il vecchio che non accetta l’allontanamento della ragazza che ha accudito e mantenuto su una barca in attesa della maturità per sposarla, né il giovane che vuole portarla via con sé per farle conoscere le cose che non ha mai conosciuto, né la ragazza stessa che alla vista della gioventù vorrebbe abbandonare il proprio padrone (amato), agisce nel giusto. O nell’errore, se è per questo, tanto ormai sappiamo che i concetti di bene e male nella poetica del regista coreano non possiedono più coordinate precise. Non c’è odio per nessuno, e neanche rancore: l’amore vince in un’universalità che è anche, se non soprattutto, misericordia. Il che non esclude la morte o il dolore. Ma Kim stavolta tende troppo le sue corde, e infastidisce. Il panismo conclusivo, durante la celebrazione e relativa transustanziazione pagana, è decisamente pacchiano, quando L’isola aveva già detto tutto, e con ben altra efficacia. E poi, più procede, più L’arco si attorciglia su se stesso, sfiorando il ridicolo e impantanandosi in quella retorica simbolistica che in Kim è sempre stata strumento per una consapevolezza interiore, e non trousse per una vetrina turistica.
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