Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Bel film com cui Kim si conferma autore dal tratto inconfondibile, probabilmente il miglior cineasta dell'Estremo Oriente per quanto riguarda gli anni zero (come il nipponico Kitano lo era stato per gli anni 90). Il mutismo dei protagonisti, figure simboliche, estreme, "smaller than life", fuori dal mondo, sineddoche di una condizione esistenziale di assoluta emarginazione; la circolarità di una narrazione che ripropone ciclicamente le stesse situazioni, scardinando a poco a poco l'equilibrio per ricomporne uno nuovo, fino alla rottura definitiva, insanabile; corpi e volti usati come oggetti, maschere, totem, feticci, opere d'arte; lo spazio circostante, plasmabile creativamente, come riflesso dello stato mentale dei personaggi; la comunicazione che passa attraverso gesti appartenenti ad un universo di senso conchiuso ed autosufficiente (lin questo caso, l'uso dell'arco, per intimorire, suonare e addirittura deflorare); la dialettica fra questo mondo irreale e il conformismo razionalista della società "normale", forgiata dal neo-consumismo dell'iper-tecnologica Sud Corea di oggi. Tutto ciò caratterizza poetica ed estetica di Kim Ki-Duk. In questo "Arco" ne troviamo una versione "classica", più lineare ed essenziale del solito, con pochi invenzioni registiche (il colpo di genio, sempre in bilico tra ridicolo e sublime, della freccia che svergina la ragazza, e l'oroscopo dell'altalena) rispetto agli splendidi "Soffio" e "Ferro 3". Ma in questa straziante, tristissima e perversa storia d'amore e sacrificio è la mano sicura, consapevole e pacata, di uno dei poeti contemporanei della Settima Arte a fare la differenza.
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