Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Anche per questo film, come per gli altri di Kim Ki-duk, sarebbe desiderabile che Bocchi di Film-tv si sforzasse di capire il film prima di giudicarlo (non che sia facile da capire, ma è uno sforzo necessario per chi voglia farne una recensione), e che motivasse i suoi giudizi con qualche considerazione critica basata sul film e non solo su vaniloqui pseudofilosofici e affermazioni arbitrarie, come invece fa sia quando loda sia quando critica: sembra infatti non aver capito non solo il film ma neppure le proprie parole. “La generosità, nel cinema di Kim Ki-duk, è sempre stata l’equilibrio al nero più nichilista”, cosa significa? Dalla frase seguente, “Con L’arco, il regista coreano si apre ancora di più a spiragli pietosi” sembrerebbe di dover dedurre che “l’equilibrio al nero più nichilista” significa aprirsi a spiragli pietosi; questi poi sarebbero dimostrati dal fatto che “nessuno dei tre personaggi principali (...) agisce nel giusto”; cosa ci sia di pietoso in questo fatto non so, ma è falso anche che i tre non agiscano “nel giusto”: il giovane ha cercato e trovato i genitori della ragazza (che pertanto non è “orfana” come invece afferma film-tv, che così dimostra non solo di non aver capito ma di non aver neppure “letto” il film), porta le prove che essi la stanno ancora cercando, vuole riportarla a loro e cerca di convincere il vecchio a lasciarla andare; il vecchio ha educato la bimba rispettandola in attesa di sposarla quando avrà 17 anni, cosa abbastanza frequente in oriente, ma è colpito dai rimproveri del ragazzo e dai rifiuti della ragazza, e, nonostante il fortissimo desiderio (sentimentale, complesso, certamente non solo erotico) maturato in dieci anni di attesa, finisce per lasciarla andare, sia pure dapprima in forme ambigue, tentando un suicidio che forse ha lo scopo di spingerla a tornare, ma poi realizzandolo e liberandola; lei è innamorata del ragazzo ma vuol bene al vecchio e di fronte alla disperazione di lui accetta di sposarlo; sarà lui a rinunciare, dopo il rito matrimoniale, per lasciarla libera. Bocchi dovrebbe spiegarci cosa ci sia di non giusto in tutto ciò. Ma non basta; a questo punto Bocchi ci ricorda che “ormai sappiamo [lo sa lui, l’ha già affermato, senza provarlo, per altri film del regista] che i concetti di bene e male nella poetica del regista coreano non possiedono più coordinate precise”; e per chi possiedono coordinate precise? Ma Bocchi sembra intenderlo nel senso di “morte” della morale, dato che nella recensione de La samaritana ha scritto che “è elaborazione impossibile di un lutto, quello per la morte della morale”; il che è assolutamente falso, in generale per il regista che gioca sempre, e particolarmente in questo film, su temi e problemi morali, sia pure mettendoli in discussione, come avviene a chiunque tratti problemi morali in modo non fanatico. Poi Bocchi, a prova della affermata morte della morale o del fatto che nel regista “bene e male (...) non possiedono più coordinate precise”, conclude che “l’amore vince in un’universalità che è anche, se non soprattutto, misericordia. Il che non esclude la morte o il dolore”: potrebbe essere un buon riassunto del vangelo di Gesù; forse anche il vangelo per Bocchi segna la morte della morale e il relativismo etico. “Pacchiano” e “ridicolo” non è il finale del film (il cui simbolismo Bocchi dovrebbe almeno capire e spiegare se vuole criticarlo) ma Bocchi, che deve aver orecchiato malamente qualche termine filosofico e teologico e se ne riempie la bocca senza comprenderne il significato: “il panismo conclusivo” e “la transustanziazione pagana” sono cose che non hanno nulla a che fare con il film (a meno che qualcuno non ne dia una dimostrazione)...
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