Regia di Eran Riklis vedi scheda film
In La sposa siriana si respira aria di cinema povero e vero, seppure professionale (Riklis non è certo l'ultimo arrivato) e per niente abborracciato. Il regista ha fatto tesoro di certo cinema iraniano recente, a dimostrazione che, al di là degli assurdi estremismi e dei proclami di leader politici balordi, il cinema e probabilmente i popoli di quell'area sono meno lontani di quanto ci si sia voluto far credere fino ad oggi, anche a dispetto di confini e reticolati. C'è anche una buona dose di furbizia nel cinema di Riklis, abile, qui, a coniugare folklore e modernità, commedia di costume e denuncia civile ed a fornire, attraverso la sua narrazione, anche uno sguardo etnografico, oltre che politico, su una terra che, per le continue violenze che la caratterizzano da decenni, spinge più d'uno a cambiare canale quando ne parla il telegiornale.
Riklis è un regista esperto e intelligente ed ha buon gioco nel mettere in risalto gli aspetti kafkiani di questa commedia ambientata nella comunità drusa dell'alto Golan, nei pressi della cittadina di Majdal Shams, una zona montuosa giuridicamente appartenente alla Siria, ma di fatto occupata dallo Stato di Israele a partire dalle conquiste fatte a seguito della Guerra dei sei giorni del 1967. La frontiera installata dagli israeliani ai margini dei territori occupati è un lungo reticolato quasi invalicabile, che fa il paio con quelli conficcati nelle menti delle persone. Da questo punto di vista, nel film assume un ruolo centrale la figura di Amal (interpretata dalla fenomenale attrice palestinese Hiam Abbass) - la sorella della sposa -, personaggio che in sé agglomera, oltre agli aspetti comuni agli altri personaggi (soprattutto maschili: l'appartenenza a una minoranza religiosa, il vivere in una terra espropriata, l'imminente separazione dalla sorella eccetera), ulteriori motivi di disagio, come la condizione di donna in una società musulmana sospesa tra modernità e rispetto delle tradizioni, tra ambizioni frustrate e sacrificate sull'altare della famiglia e l'istinto di ribellione a un marito mal sopportato e ad una società da cui si sente oppressa.
In questo guazzabuglio di etnie, confini e religioni, rappresentato dalle cinque diverse lingue parlate nel film, l'unico senso logico che si può trarre è che le barriere, talvolta, si possono superare senza colpo ferire, come dimostra l'attraversamento del confine da parte della sposa, che avviene fuori campo.
Qualche piccolo eccesso di grottesco - concentrato soprattutto nel personaggio del fratello Marwan, proveniente dall'Italia e cafone come un italiano da esportazione - è ampiamente riscattato da momenti di sobria commozione, messi in scena da interpreti che hanno piccolo nome presso il grosso pubblico, ma enorme capacità espressiva.
P.S. Qualche affermazione può perfino sembrare improvvida, ma si tenga conto che ho visto La sposa siriana, come risulta dalla mia agenda, il 10 novembre 2015, tre giorni prima delle stragi terroristiche di Parigi (teatro Bataclan, Stade de France ecc.).
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