Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Paul Hackett vive a New York, svolge un’esistenza anonima e monotona, cosi come il suo lavoro da impiegato che comunque gli permette una vita agiata. Una sera in cui si trova in un bar incontra una ragazza, con i suoi stessi gusti letterali, si lascia affascinare. Quando lei lo invita a casa, in un quartiere alla periferia della città, il destino sembrerà accanirsi contro Paul.
Martin Scorsese parte dalla visione, anzi dalla percezione generale che a quell’epoca (ma in realtà ancora oggi), gran parte della massa popolare ha dei sobborghi urbani. Laddove nidifica, secondo loro, la malavita e la povertà. La rassegnazione e le strane abitudini. Scorsese prende questi luoghi comuni, ci mette in mezzo un borghesotto egoista ed arrogante, e crea il film (forse) più grottesco e divertente della sua carriera.
Inizialmente sembra di stare guardando un thriller. Il mistero aleggia ovunque e l’oscurità che avvolge il protagonista e le sue azioni convulse, diventa presto complice dell’ignoto. In una Soho isolata e piovosa, popolata da strambi personaggi, lo spettatore non può fare a meno di sentirsi smarrito, in trappola, come il povero Paul, convinta vittima del sistema “sporco e cattivo” in cui è incappato che deflora la sua ingenuità protettiva.
A guardarlo bene il film di zio Martin è meno innocuo di quanto possa sembrare. È una violenza psicologica costante, un vortice di situazioni destabilizzanti e ambigue che finiscono per condurre sull’orlo della follia. La sceneggiatura di Joseph Minion è costruita magistralmente, avvolge Paul Hackett, interpretato da Griffin Dunneagli albori della sua carriera, e lo sballottola in un marasma di situazioni al limite dell’assurdo.
Paul Hackett diventa così il portavoce di quella sorta di allucinazione collettiva, figlia di un pensiero radicato, in un tempo neanche troppo passato, in cui le periferie erano luoghi di degrado, abitati da persone con modi di pensare, e di fare, incomprensibili. La visione distorta che il protagonista si ostina a portare avanti, finisce per trasformarlo da vittima a carnefice; a tal punto incapace di liberarsi del pregiudizio che piuttosto che soccombere alla verità, meno cruda e nuda di quanto la sua mente abbia costruito, continua a celarle sotto centimetri di colla e giornali.
Fuori orario, è ritratto e figlio di ogni tempo. A suo modo sempre attuale e capace di lasciare allo spettatore la possibilità di riconoscersi in Paul, laddove ci sia autocritica e percezione di sé stesso. Una pellicola che si guarda con curioso interesse anche se da un certo momento in poi diventa ripetitiva, con la stessa situazione replicata all’infinito, una sorta di loop mnemonico di cui anche lo spettatore diventa complice involontario.
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