Regia di Bertrand Tavernier vedi scheda film
Rec breve
Dopo l'ottimo "Ricomincia da oggi" Bertrand Tavernier torna a lavorare con la figlia Tiffany e il suo compagno Dominique Sampietro, autori, anche in questo caso, di una sceneggiatura stratificata, complessa ed estremamente densa. "La piccola Lola" è, senza dubbio, prima di tutto un intenso, dettagliato e coinvolgente racconto/inchiesta dallo stile documentaristico sulle difficoltà, spesso insormontabili, che una coppia deve affrontare per poter adottare un figlio. Tavernier, con una discrezione e una finezza magistrali, pedina questa coppia nel suo spesso vuoto peregrinare per le strade e gli orfanotrofi della Cambogia, ne racconta l'intimità e la complicità, ne evidenzia dapprima la rabbia e la disillusione, poi la testardaggine e la voglia di andare oltre, poi l'insperata e tanto attesa gioia. Il regista però non si dimentica anche del contesto in cui ambienta la sua vicenda per cui ecco il ritratto incisivo di un paese, la Cambogia, dove "tutti sorridono, ma abbiamo il cuore infranto". Un film che è soprattutto un'esperienza umana istruttiva ed arricchente, capace di raggirare abilmente le pericolose trappole di un cinema didascalico, patetico, sentimentalistico o declamatorio. Adottivo.
Voto: 8
Pierre e Gerardine sono in Cambogia per un'adozione. Tra ripetuti contrattempi, una burocrazia esasperante, mazzette per funzionari corrotti, odiosi trafficanti di bimbi, visite a decine di orfanotrofi senza successo, abbondanti piogge monsoniche, firme e visti che non arrivano mai, il silenzio dell'ambasciata francese, la superficialità, quasi l'ostruzionismo, delle autorità locali, giri in motorino per le fangose o polverose strade di Phnom Penh o per le campagne cambogiane, accese e vibranti discussioni coniugali, pianti disperati, confronti con coppie nella medesima condizione, paura di non farcela, profonde crisi di nervi, tentazione di lasciare tutto, la coppia si vede affidata la piccola Lola. Prima di portarla a casa, però, la trafila burocratica sarà ancora molto lunga, stressante e faticosa. Dopo l'ottimo "Ricomincia da oggi" Bertrand Tavernier torna a lavorare con la figlia Tiffany e il suo compagno Dominique Sampietro, autori, anche in questo caso, di una sceneggiatura stratificata, complessa ed estremamente densa (inizialmente il regista voleva trarre un film dal primo romanzo della figlia "Dans la nuit aussi le ciel" incentrato su un'adolescente che parte per Calcutta dove scopre il suo lato umanitario, poi Tiffany lo ha convinto a realizzare un film sulle adozioni internazionali per il quale avrebbe potuto riprendere molte delle idee e dei temi di quel romanzo). "La piccola Lola" è, senza dubbio, prima di tutto un intenso, dettagliato e coinvolgente racconto/inchiesta dallo stile documentaristico (Tavernier ha citato come modello il Rossellini di "Europa '51" e di "Germania anno zero") sulle difficoltà, spesso insormontabili, che una coppia deve affrontare per poter adottare un figlio. Tavernier, come sempre nei suoi film più intimi e delicati, ha l'intelligenza e l'umiltà di avvalersi di un complice occhio femminile (prima la moglie Colo per "Una settimana di vacanze", "Una domenica in campagna" e "Daddy nostalgie", ora la figlia Tiffany), prezioso e fondamentale per guardare ai suoi personaggi nella corretta e più completa prospettiva. Così è davvero toccante Geraldine, interpretata da una strepitosa Isabelle Carré (scelta al posto di Marie Gillain, l'esca dell'omonimo film di Tavernier, la quale ha dovuto rinunciare perché incinta) che registra su nastro, nella prospettiva di farle poi conoscere al figlio/a, le sue impressioni, paure, incertezze, angosce, inquietudini e speranze di futura mamma. In questo senso esemplificativo è un bellissimo dialogo ("Ho le nausee, voglia di fragole e di formaggio e non sei nel mio ventre. Io piango, mi innervosisco, perdo la pazienza...e non sei nel mio ventre.!") perfetto per evidenziare il senso di sconfitta di una donna ("Mi sento bacata" dice in un momento di intimità al marito) che fa fatica ad accettare di essere sterile e vive la mancata maternità con un forte senso di disagio, tanto da mettere in discussione anche il rapporto con il marito (un ammirevole Jacques Gamblin, già splendido protagonista per il regista nel precedente e riuscito "Laizzez-passer"). Tavernier, con una discrezione e una finezza magistrali, pedina questa coppia nel suo spesso vuoto peregrinare per le strade e gli orfanotrofi della Cambogia, ne racconta l'intimità e la complicità (la bella sequenza in cui Pierre fa una doccia alla moglie ubriaca e ormai rassegnata a prendere l'aereo per ritornare in Francia), ne evidenzia dapprima la rabbia e la disillusione, poi la testardaggine e la voglia di andare oltre (l'episodio con i loschi trafficanti con Pierre estremamente dubbioso e turbato dal fatto di "comprare una bambina rubata" e Geraldine disposta a tutto pur di avere una bimba - "Che me ne frega! Almeno la salveremo. Non si farà stuprare a 8 anni da un turista!") poi l'insperata e tanto attesa gioia che trova il suo apice nel primo incontro con Lola, messo in scena con una sensibilità e una dolcezza ormai quasi assenti nel cinema moderno (basti vedere come la cinepresa osserva la reazione incredula di Géraldine che scoppia in un pianto di felicità e di liberazione, dopo tanto dolore e troppe delusioni) e nella lettura degli esami della piccola da cui risulta la sua buona salute (Pierre e Géraldine esultano e corrono per strada abbracciandosi come due bambini a cui è stato fatto il regalo più desiderato e atteso). L'apparente ripetizione e i tempi lunghi sono solo un saggio espediente adottato dal regista per evidenziare le frustrazioni e il circolo chiuso in cui, ad un certo punto, si sentono bloccati i due protagonisti, tanto che una guida locale cita loro un proverbio cinese che dice "Quando si gira in tondo, bisogna rompere il cerchio." Tavernier però non si dimentica anche del contesto in cui ambienta la sua vicenda per cui ecco il ritratto incisivo di un paese, la Cambogia, dove "tutti sorridono, ma abbiamo il cuore infranto", dove i contadini continuano a lavorare nei campi pur sapendo degli enormi rischi che corrono per la presenza ancora di moltissime mine inesplose, dove i bambini vengono impiegati anche 24 ore al giorno nelle discariche tra i rifiuti (immagine indelebile), dove gente senza scrupoli ruba i bimbi per poi rivenderli al miglior offerente, dove funzionari e politicanti moralmente discutibili fanno delle adozioni infantili uno squallido e deprimente busness, giocando subdolamente ed economicamente con la disperazione delle persone. Un paese in cui è ancora terribile e molto profonda la ferita lasciata dai khmer rossi (c'è anche spazio per una visita al museo del genocidio). E' molto bella anche la descrizione della piccola comunità di coppie francesi che si ritrovano in Cambogia per lo stesso motivo e che stringono tra loro confidenze e amicizie, condividendo, pur nelle inevitabili differenze, anche economiche e sociali (si pensi al personaggio di Marco che non può più chiedere permessi al suo datore di lavoro) l'ansia, le preoccupazioni, persino l'invidia di un'esperienza che mette a dura prova la stabilità, l'equilibrio e le certezze di una coppia. Un film che è soprattutto un'esperienza umana istruttiva ed arricchente, capace di raggirare abilmente le pericolose trappole di un cinema didascalico, patetico, sentimentalistico o declamatorio (chissà cosa avrebbero fatto gli americani con un soggetto analogo), con alcuni toccanti squarci sulla realtà cambogiana, un occhio carico di affetto ai bambini (non si dimentica la pagina sui piccoli malati di AIDS che rivolgono il loro sguardo quasi implorante alla cinepresa) e diversi magnifici momenti, sia pure all'apparenza quasi estranei al resto della storia. Penso allo straziante racconto di Sokkhom che ricorda le disavventure sue e della moglie, costretta dapprima a partorire nella foresta, quindi arrestati dai Khmer rossi, con un barattolo di riso crudo per 30 persone come razione quotidiana, "ingabbiati come bestiame" su un treno merci dove il loro piccolo trova la morte, obbligati a lavorare per mesi nelle risaie, poi finalmente in grado di fuggire da quell'inferno dirigendosi verso la frontiera tailandese, sentendosi liberi: 40 Kg il peso di lui, 42 Kg il peso di lei, ma con un secondo bimbo in arrivo. Intenso, doloroso ma anche ironico ed appassionato, il film di Tavernier ti fa entrare sotto pelle le emozioni, le attese, gli sfoghi e i drammi di Pierre e Geraldine, te li fa vivere da vicino come se fossero i tuoi, ti rende partecipi della loro straziante avventura che sembra non voler avere fine. E quello sguardo finale di Geraldine, certo provata, ma sorridente e serena, pronta a prendere l'aereo per tornare in Francia con la sua Lola è illuminante: 11 anni di attesa sono tanti, ma gli sforzi e i sacrifici fatti, le amarezze e le illusioni patite, la rabbia e il nervosismo accumulati sono niente in confronto alla pienezza e all'appagamento che ti può dare solo la consapevolezza e la maturità di essere finalmente madre. Esemplare.
Voto: 8
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