Regia di Stephen Chow vedi scheda film
Basta, basta, basta. Vergogna, vergogna, vergogna. I responsabili del nostro doppiaggio dovrebbero essere tassati per ogni beceraggine commessa: andrebbero subito sul lastrico. È un insulto all’intelligenza, una presa per i fondelli, un’offesa al comune senso della cultura. Qui non si tratta di adattare niente: è solo questione di decenza umana. Evidentemente, i suddetti responsabili non sono umani. Shaolin Soccer fu bastonato con un sublime doppiaggio romanesco. Qui ci sono delle sublimi voci tra Napoli e il Colosseo. Complimenti: spregio totale per lo spettatore, segno di primitività bestiale. Così chi vuole godere di un autore geniale e di un film geniale, si ritrova in mano una pummarola. Kung Fusion inizia come Un sogno lungo un giorno versione Hong Kong noir, con balletto conclusivo che fa impallidire quello dello Zatoichi di Kitano; prosegue con impennate cartoonesche dalla violenza inaudita, e con un uso fulminante del digitale; verso tre quarti, c’è una scena che coinvolge Chow stesso a cui non si riesce a credere, e che lascia di sasso; termina con una invasione di lecca-lecca che commuove. In mezzo, c’è tanto altro. E poi è anche un film sulla società e la divisione in classi, sul potere, sulla necessità del sogno. Anche se in Italia fa la figura di una pizza quattro stagioni.
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