Regia di Byambasuren Davaa, Luigi Falorni vedi scheda film
Incredibile fenomeno da passaparola, La storia del cammello che piange ha fatto pienone di attenzioni spettatoriali e critiche nei festival in cui è stato presentato. Le ragioni sono abbastanza misteriose. Forse il manifesto, col faccione del cammello in primo piano. Forse la furbizia della promozione. Forse il bisogno di sentimenti edificanti, che negli umani oggi sembrano robotici, quindi è bene ripartire dagli animali. Cosa si può dire di questo film (film?)? Si sta lì, lo si guarda, si partecipa anche alla vicenda del cammello cucciolo che, poverino, viene rifiutato dalla mamma, creando scompiglio anche tra i membri proprietari della famiglia nomade, nel deserto del Gobi, e poi? Niente, si esce dalla sala con la gioia nel cuore, perché il triste cammellino alla fin fine ce la fa a ciucciare la tettarella della genitrice, dopo aver penato e pianto a dirotto. L’opera, a metà tra la fiction e il documentario, è anche ben congegnata, e non ci si meraviglia se lo strazio della bestiola è anche un po’ il nostro, che proviamo pena per la sua sorte crudele. Ma tutto è bene quel che finisce bene. Se l’intento era quello di raccontare le cose della vita (una civiltà? una società?) attraverso l’animale, eravamo troppo obnubilati dalle lacrime per capirlo.
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