Regia di Byambasuren Davaa, Luigi Falorni vedi scheda film
Il documentario sta vivendo, ormai da un bel po’, una fortunata stagione: The Corporation, Super Size Me, The Take, e quest’ennesima prova, La storia del cammello che piange: un docu-dramma di due giovani registi, l’italiano Luigi Falorni e la mongola Byambasuren Davaa. L’unico film italiano giunto alle nomination nell’ultima edizione degli Oscar. Anche questa pellicola, come tutte le altre citate, sono fortunatamente distribuite in Italia dalla Fandango, del barese Domenico Procacci.
I due registi son volati nel cuore del deserto del Gobi, nella Mongolia del sud, per raccontarci la storia di una famiglia di pastori nomadi, alle prese con un cammello che, dopo aver partorito con grande sofferenza, rifiuta il suo piccolo, nato albino. Il cucciolo piange ed ogni volta che si avvicina alla mammella della madre per succhiarne il latte e chiedere amore viene scacciato in malo modo. I pastori, dopo aver tentato, senza fortuna, di nutrirlo artificialmente, chiedono a due dei loro bambini, Ugna e Dude, di raggiungere il paese più vicino per cercare un musicista. Secondo un vecchio rituale, infatti, solo la potenza della musica risveglierà nell’animale l’istinto materno e gli permetterà di accettare ed amare il suo cucciolo.
Un film lontano un miglio dall’obsoleta impostazione naturalista del documentario classico, che si avvale dei meccanismi drammaturgici della fiction, per raccontare una vicenda che ha un preciso sviluppo, con un inizio, un centro e una fine. Falorni e la Davaa non si limitano a guardare la vita dei pastori e i loro reiterati gesti elementari, ma abbozzano una sceneggiatura molto intelligente, che racconta, anche e soprattutto, i costumi, le tradizioni e le storie di una gente lontana anni luce dall’archetipo dell’uomo occidentale, grazie alla quale si viene a contatto con quattro generazioni della stessa famiglia, anzi una tribù, che ha un rapporto molto particolare con il proprio bestiame, considerato come la propria estensione. Infatti, il dramma del piccolo cammello che piange, perché rifiutato, diventa anche quello dell’intera famiglia, che non può accettare l’idea che uno dei suoi componenti soffra e rischi di morire senza affetto. Ed ecco che, tutti si prodigano affinché gli occhi dei due cammelli si incontrino e si riconoscano, un arduo compito che fa comprendere a tutti che dove non arriva la natura può intervenire la musica, il canto della giovane Odgoo, accompagnato dal suono arcaico del violino che imperla di lacrime lo sguardo spento di una cattiva madre. “Quando Dio creò lo zodiaco, anche il cammello voleva farne parte”, è l’epigrafe emblematica di un modo di concepire l’esistenza assolutamente distante dal nostro.
Interessante anche il viaggio che i due bambini compiono nel deserto, dove, poco distante dalla loro tribù scoprono “il paese dei balocchi”, con la ‘magia’ della televisione, l’antenna parabolica, i giochi elettronici, di contro a quelli soliti di Ugna, abituato a giocare con i sassolini, le biciclette e i motori che sostituiscono i cammelli. Insomma, la civiltà che si sta avvicinando in maniera minacciosa a culture millenarie, destinate ad essere inghiottite. Memorabile la domanda posta da Ugna a suo padre: “Papà, compriamo un televisore?” “Ma ci costerà un gregge intero!”.
A rendere tutto più incisivo la straordinaria fotografia, che regala la naturalezza del deserto, con paesaggi aridi, avvolti nelle terribili tempeste di sabbia.
Una storia molto bella per la sua semplicità: la rappresentazione della nostra condizione di esseri umani soli al mondo, incapaci di vivere senza amore e protezione.
Giancarlo Visitilli
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