Regia di Kon Ichikawa vedi scheda film
L’obiettivo di Ichikawa è centrato sull’uomo, che appare solo, sia perché è abbandonato a se stesso, sia perché risulta completo e autonomo nella sua responsabilità di individuo. Nelle sue storie di guerra, i grandi movimenti degli eserciti rimangono fuori dalla vista, mentre sullo schermo restano impressi i tragici segni di un’umanità devastata e dispersa, costretta ad inutili avanzate, a fughe senza meta e a disperate peregrinazioni. Il teatro bellico è un deserto morale fatto di lande sterminate, giungle impenetrabili e villaggi disabitati, che ospita un immenso cimitero a cielo aperto. In questo quadro di morte e desolazione, il singolo superstite diventa rappresentativo di tutti i suoi simili, ed ogni suo gesto riassume la risposta del mondo a tanto orrore. Questa può consistere nel rifiuto, unito all’eroico impegno a rimediare, come ne L’arpa birmana, oppure, al contrario, come in questo film, nel desiderio di rivalsa, che perpetua la cinica logica della sopraffazione e dell’opportunismo, impedendo ogni forma di salvezza. La solidarietà è totalmente esclusa in un ambiente in cui la fame e l’abbrutimento rendono accettabili il cannibalismo e lo sciacallaggio; per i soldati giapponesi combattenti sul fronte filippino, la disfatta sul campo è preceduta dalla sconfitta interiore, dalla perdita della loro anima. Quel che resta di una formazione militare che ha smarrito il senso dell’onore, e che ha capito che la sopravvivenza è meramente una questione di probabilità, si concepisce ormai soltanto come carne, come uno scarto di macellazione: un brandello vivente in mezzo a tanti brandelli morti, che può solo cibarsi del sangue sparso tutto intorno. In questa infernale visione la guerra è materia putrefatta che ammorba l’aria, è fango in cui si può solo sprofondare: tener duro equivale a consumarsi masticando sale, e sognando inutilmente l’acqua che purifica e disseta, ed un fuoco che non sia un veicolo di distruzione, ma una fiamma casalinga che scalda il cuore e sazia di un nutrimento vero. Fuochi nella pianura è un crudo poema dell’annientamento, che pure conserva i plastici contorni del canto lirico; le forme di questa narrazione sono plasmate nel realismo e nella sensibilità, che sono i rispettosi tributi offerti a tutto ciò che, per quanto indicibilmente atroce, inizia e termina nel lacrimoso abisso della sofferenza umana.
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