Regia di Kon Ichikawa vedi scheda film
Sul fronte filippino, nel '45, le truppe giapponesi sono ormai stremate. Gli americani sono arrivati e l'anarchia regna sovrana tra quel che resta della gloriosa armata del Sol Levante. Dopo "L'arpa birmana" del 1956, Kon Ichikawa prosegue la sua riflessione sulla catastrofe bellica dirigendo questo "Fuochi nella pianura" (nel 1959) e porta sullo schermo la follia disumanizzante che ha colpito l'intera umanità. A differenza del sopracitato "L'arpa birmana" in cui un soldato, unico sopravvissuto alla strage dei propri compagni, trova conforto in una sorta di coscienza mistica, il soldato tisico Tamura, in "Fuochi nella pianura", si rifugia nella propria "coscienza umana", o meglio, in quel poco che ne rimane, svincolata da ogni forma di religiosità. Ichikawa persegue, quindi, una "via laica", confidando ancora in ciò che resta dell'animo umano.
I nemici non sono tanto (almeno non solo) gli yankee che bombardano dall'alto e mitragliano dal basso, quanto semmai la barbarie che ha sconvolto l'individuo e la sua stessa natura, trasformandolo in una bestia affamata ed irrazionale. Ichikawa, infatti, adotta una messa in scena via via sempre più tetra e squallida con un bianco e nero intriso dell'inferno di fango, giungla, corpi e sangue. Il deperimento fisico dei soldati giapponesi, corrosi dalle ferite di guerra e dalle malattie, descrive bene quel processo di disumanizzazione che li ha colpiti. Non sono più uomini, ma sub-umani. Zombie affamati; ombre vaganti senza meta. Se non sei più un uomo, tutto ti è concesso e tutto puoi fare agli altri non-uomini. In questo pessimista delirio di brutalità, pare, però, esserci ancora un minimo di speranza. Il soldato Tamura sfigurato esteriormente, decide comunque di rimanere se stesso lasciandosi andare verso quei fuochi che per tutto il suo vagare gli apparivano all'orizzonte. Salvezza o meno che siano sono l'unica via di fuga dall'orrore che lo circonda.
L'impianto stilistico è del tutto funzionale al racconto. Se i primi piani servono a descrivere le ferite esteriori, ma soprattutto quelle interiori, il campo medio, e quello lungo, in oggettiva vengono utilizzati per descrivere l'orrore della morte, e della miseria umana, senza calcare sulla facile drammatizzazione.
La profondità di campo e lo spazio sempre a fuoco concentrano l'attenzione anche ai margini dell'inquadratura.
La fotografia, quasi sempre contrastata ed immersa in chiaroscuri più o meno marcati, si fa in alcune sequenze più morbida, quasi a voler dar nitidezza, "luce", all'orrore reale che pervade la scena.
Difficilmente reperibile in Italia, ne esiste in rete un'ottima edizione della Criterion.
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