Regia di John Huston vedi scheda film
Lo stacco imperioso di Pelè, che si eleva da un campo polveroso per segnare in ralenti con una splendida rovesciata, è l’immagine che da sempre rappresenta “Fuga per la vittoria”, un film preceduto dal suo stesso mito. Chiunque non abbia mai visto prima questo manifesto carcerario-sportivo, firmato dal maestro John Houston nel 1981, ha in ogni caso già in mente la citata acrobazia dell’asso brasiliano, la prodigiosa parata di Stallone e l’esplosione di gioia che consegue agli insperati gesti tecnici della truppa di Gensdorff. Eppure la partita finisce 4 a 4. Ciò significa che quei gesti, indubbiamente prodigiosi sul piano sportivo, non sono che un imbelletto, uno specchietto per quelle allodole fanatiche di pallone. Già, perché il film vuol raccontare altro. Ecco perché, nonostante ci si ostini a spacciarlo come film del genere “sportivo”, “Fuga per la vittoria” è una pellicola paragonabile più a “Le ali della libertà” o a “Stalag 17”, addirittura più a “L’attimo fuggente” o a “La leggenda del pianista sull’Oceano”, che ad uno qualsiasi dei film ufficiali sui Mondiali di Calcio (unico vero filone per cui si possa tollerare l’improvvida catalogazione di “film sportivo”). “Fuga per la vittoria” è di fatto un film sulla redenzione e sulla forza stentorea della fierezza. Stallone, uno dei protagonisti del film nel ruolo del Capitano Hatch, becca molti più pugni qui che nei suo precedenti “Rocky” e “Rocky II”, e molti più improperi di quanti ne subirà nel successivo “Sorvegliato speciale”. Questo perché l’intento degli sceneggiatori è quello, riuscitissimo, di sottolineare, da un punto di vista originale e mai visto in precedenza, l’assurdità di alcuni meccanismi sociali, quando alla sete di potere si mischiano tutti insieme pregiudizi, prevaricazioni, arroganza e irragionevolezza.
Ed è da questo punto di vista che “Fuga per la vittoria” va considerato un gran film. Il meglio non sta difatti nell’incontro di Parigi, bensì nella sua preparazione e nel valore semantico di quanto questo significhi. Non a caso, la “fuga” del titolo sarebbe potuta essere molto più agevole (prima Hatch evade per poi tornare dentro volontariamente, infine il piano per l’evasione durante l’intervallo riesce perfettamente, ma non viene sfruttato…). Ma tale agevolezza non avrebbe fatto rima con dignità; anzi, si sarebbe potuta addirittura spacciare per codardia. Per questo Hatch, Colby (un magnifico Michael Caine) e tutta la truppa evaderanno con orgoglio: l’orgoglio di aver calpestato la boria di un nemico imbattibile, che risulta però fragile quando si combatte faccia a faccia e ad armi pari; per di più col consenso della folla, che porta in trionfo la squadra non verso una coppa, ma incontro alla ben più nobile ed inestimabile libertà.
Il compito, insolito per uno come John Houston che ha diretto capolavori inestimabili ma in generi del tutto differenti, è svolto come un temino svogliato, da “6 in pagella” stiracchiato. Houston sembra non trovarsi a proprio agio: il ricorso a ralenti, musica eclatante o scene di massa non sembrano nelle sue corde, tanto che la regia, al pari della recitazione di Stallone appaiono come le uniche note stonate.
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