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Cappotto di legno

Regia di Gianni Manera vedi scheda film

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La recensione su Cappotto di legno

di moonlightrosso
2 stelle

...dalle parti del capolavoro o giù di lì

Gianni Manera (1940-2013), è stato, a suo modo, un personaggio di spicco nel sottobosco del cinema di genere italiano. Esordì negli anni sessanta come generico di terza fila con all'attivo una manciata di films minori ma anche un piccolo ruolo nello sceneggiato televisivo "Vita di Dante" di Vittorio Cottafavi (1965). Passato quasi di punto in bianco alla regia, ci regalò, nel decennio successivo, tre films di cui è lecito chiedersi ancora oggi chi gli abbia mai dato i soldi per realizzarli. Forte dei due precedenti scults "La Lunga Ombra del Lupo" (1971) e l'allucinante "Ordine Firmato in Bianco" (1975), con oltre quattro anni di lavorazione e l'alternarsi di ben quattro direttori della fotografia, il compianto cineasta di origine abruzzese, nella consueta e megalomane triplice veste di regista, protagonista assoluto e autore del soggetto, partorisce un indigeribile e pretenzioso pseudo-polar dove si coniugano, con rara goffaggine, dramma, azione, impegno sociale e persino esegesi storica sulle origini della mafia. 

Nel prologo virato seppia il Manera sciorina un'accozzaglia di fonti storiche di vario genere, con le quali vorrebbe dimostrare, secondo una sua originalissima, per non dire azzardata o peggio ancora campata per aria impostazione, come la mafia debba in realtà trovare i suoi natali nel banditismo abruzzese della seconda metà dell'Ottocento. Coloro che riuscirono a sfuggire agli arresti e alle fucilazioni sarebbero poi emigrati negli Stati Uniti per dar vita, unitamente ai tanti immigrati siciliani, calabresi e napoletani, a Cosa Nostra (e qui davvero non si finisce mai di imparare!).

New York: la famiglia Talascio, a seguito della scarcerazione del suo uomo di punta Tony, ("ca va sans dire" interpretato dallo stesso Gianni Manera), ristabilisce il prestigio e il dominio territoriale, uccidendo i più importanti membri della concorrente "Black Power", la mafia dei neri, nonchè il loro capo carismatico John Dixon, impersonato dal re della blacksploitation Fred Williamson. In barba a ogni logica narrativa, ma nella necessità di rispettare un budget sempre più ristretto, che impone evidentemente di abbandonare le costose riprese in terra statunitense, la famiglia si trasferisce interamente e improvvisamente in Abruzzo (sic!). Si adduce a banale giustificazione il desiderio espresso dall'anziano capofamiglia Don Vincenzo Talascio (un Michel Costantin al punto più basso della sua carriera) di morire al paesello natìo. Qui proseguirà infatti il resto della strampalata vicenda (della quale preferiamo non anticiparvi ulteriormente), con alcune puntate in terra siciliana e qualche panoramica (probabilmente da repertorio) in quel di Marsiglia.

Stiracchiato fino alla nausea e penalizzato anche dai lunghi intervalli intercorsi tra un'interruzione e l'altra, il film risente di una lavorazione stratificata e di una sceneggiatura malamente rabberciata a seconda del budget di volta in volta messo a disposizione, ora quasi opulento, ora miserrimo. La modesta e maldestra regia del Manera non riesce poi minimamente a contenere, anzi piuttosto esalta, le copiose incongruenze presenti nella pellicola. Segmenti narrativi lasciati inspiegabilmente in sospeso, personaggi che appaiono e scompaiono dalla scena senza una logica, storia che fa acqua da tutte le parti. 

Spostandoci sul lato attoriale, con un nepotismo da far quasi tenerezza, il Manera sacrifica i tanti bravi caratteristi presenti nel film del calibro di Nello Pazzafini, Enrico Maisto e Tommaso Palladino, per preferire, nel ruolo di Carminuccio, fratello minore di Tony Talascio, il germano Enrico, coautore anche della sgangherata sceneggiatura, che si firma, con l'improbabile pseudonimo americaneggiante di Joseph Logan. Attore quanto mai inespressivo e scialbo, ebbe a dedicarsi, dopo queste sciagurate esperienze cinematografiche familiari, alla pittura e alla scultura, per lui foriere di migliori soddisfazioni.

Assai inopportuno ci è poi parso l'aver relegato a ruolo di comparsa muta la francese Haydèe Politoff, che diede buona prova di sè nei biagettiani "L'età del Malessere" (1968) e "Interrabang" (1969) e che forse sconvolta da cotanta incompetenza, decise, dopo questo film, di abbandonare la carriera di attrice.

In compenso, la tal Maria Pia Liotta (consorte del Manera, celatasi dietro lo pseudonimo decisamente trash di Maria Pia Le Mans), pur essendo totalmente a digiuno di qualsivoglia base recitativa, è chiamata a ricoprire addirittura un triplice ruolo: quello di Angela, figlia di Don Torlo, nemico acerrimo (non si capisce bene perchè) di Don Vincenzo, di sua madre da anziana e persino da giovane.

Partecipa al guazzabuglio anche la figlioletta del Manera nel ruolo della nipotina di Don Vincenzo, prima esperienza per un radioso futuro di affermata cantante (sarà!), o almeno così si evince dalle informazioni ricavate dal suo sito internet.

Se si ha il coraggio di resistere per ben 130 minuti (tale è la durata del film!!!) davanti ad un Manera che ruba la scena comunque, dovunque e a chiunque, manco fosse Orson Welles, nonchè davanti all'insipienza attoriale del suo parentado, la pellicola, in tutta onestà, non può dirsi scevra di quei momenti involontariamente esilaranti, in grado di appagare anche i palati più sopraffini degli esteti del brutto. Come non rimanere indifferenti davanti al paesello abruzzese che accoglie Don Vincenzo con tanto di fanfara, pistolotto del parroco e cerimonia solenne del sindaco (è un criminale mica un eroe!!!); e poi ancora: la famiglia Talascio che assurge a unico baluardo a seguito del furto del tesoro della SS. Trinità ad opera degli uomini di Don Torlo (ci si potrebbe anche rivolgere alle forze dell'ordine, non siamo tutti mafiosi!!), tesoro al quale i paesani tengono più dei loro figli, secondo uno stereotipo valido forse per le popolazioni della foresta amazzonica. Proseguendo nell'excursus, non possiamo dimenticare i frequenti dialoghi ridondanti e ridicoli, culminanti nel momento in cui la Liotta, nel ruolo di Angela, implora Carminuccio a non riempire di lutti il loro amore (roba da ribaltarsi dalla poltrona!!); l'imbarazzante numero di Charleston della medesima Liotta, consistente in un agitarsi da tarantolata totalmente fuori sincrono rispetto alla musica; i mafiosi da fumetto agghindati anche sotto un sole cocente con gessato nero e Borsalino (fidatevi del Manera! Se vi recate a Palermo, a Corleone, a Marsiglia, a New York o dove vi pare, vi accorgerete che i mafiosi vestono tutti così!). Deliziosa è poi la trovata dei due "en travesti" che fanno saltare in aria la macchina degli uomini di Don Torlo attaccando un ordigno alla carrozzeria; addirittura sublime la scritta "Famiglia Talascio" sulla fusoliera dell'aereo personale, così tanto per non farsi notare e con il quale Tony, in un lampo di genio, vorrebbe raggiungere New York all'inseguimento di Don Torlo (è un bimotore non un Jumbo!!!), per poi ripiegare verso Marsiglia (piani di volo?, rotte definite? contatti con la torre di controllo?). Da antologia, il delirante epilogo in cui il capo della magistratura, dopo aver farneticato contro movimenti eversivi come le Brigate Rosse o Nere che siano (sic!), quali cause dei delitti di mafia, senza ovviamente addurre la benchè minima motivazione, procede ad affastellare pensieri di Novalis, Von Clausewitz, Bacone e davvero chi più ne ha più ne metta, sulla moralità della politica.

Dopo questo film, del quale non si conoscono gli incassi ma forse sarebbe meglio non conoscerli, il Manera incontrerà sempre maggiori difficoltà nel reperire fondi (indovinate perchè?!) per lavori che, sfortunatamente per lui e fortunatamente per eventuali malcapitati spettatori, non verranno mai portati a termine, tra cui il più volte annunciato "Tragedia (credo, visti i precedenti, in tutti i sensi) a New York".

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