Regia di Daniele Vicari vedi scheda film
Max Flamini, fisico nucleare, vive dividendosi tra l’università e il laboratorio incastonato dentro il Gran Sasso. Nell’incipit di questo film dai silenzi assordanti, il montaggio sottolinea subito la duplicità dei confronti, degli scontri, degli eventi (appunto): l’entrata nella camera ardente per il funerale del padre non passa inosservata all’ingresso nella montagna per tentare di chiudere il prima possibile il Progetto Helios, a cui lui e il suo staff stanno lavorando da tempo. Il luogo di lavoro come un sepolcro, come morte al lavoro che - paradossalmente - si frantuma e si rivitalizza, a seconda delle scoperte o delle disillusioni, nei sogni di un esperimento, nei frammenti di un futuro che brulica nella pancia di una cima a sua volta spaccata in due: ricchi sciatori da un lato, pastori albanesi in età premoderna dall’altro. Insomma: si può parlare, e raccontare, di globalizzazione partendo da lontano, dall’alto, di sbieco; basta fermarsi qualche attimo e osservare le spaventose contraddizioni della società targata Nuovo Millennio. Col suo secondo lungometraggio Vicàri conferma le qualità svelate a Velocità massima e sempre assieme al feticcio Mastandrea, che recita in sottrazione, scarno e atomatizzato, icona perfetta di una medietà che non può fare altro che sbagliare.
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