Espandi menu
cerca
Confessione

Regia di Aleksandr Sokurov vedi scheda film

Recensioni

L'autore

EightAndHalf

EightAndHalf

Iscritto dal 4 settembre 2013 Vai al suo profilo
  • Seguaci 233
  • Post 59
  • Recensioni 1054
  • Playlist 35
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Confessione

di EightAndHalf
7 stelle

Inerzia.

Nel cortometraggio Soldier’s Dream, Aleksandr Sokurov contemplava un soldato dormiente, un essere umano volto alla violenza e all’uso della forza ma in uno stato di quiete, la tranquillità. Le immagini stavano immobili e fisse, il soldato non si muoveva, si era catapultato fuori. E noi vorremmo sognare, sognare come il soldato, perderci anche noi nell’infinito. Non arriviamo a vedere il risveglio del soldato, che sarà costretto ad affrontare una realtà ostile, ma il suo sogno è talmente forte che si proietta nel magnifico equilibrio visivo (tendenzialmente pittorico) che Sokurov realizza, attraverso un viraggio del colore tale da dare l’idea di essere di fronte a quadri romantici ottocenteschi, i colori secchi ma armoniosi, disposti con cura e con eleganza. Lo splendore dell’umiltà visiva/narrativa/tematica, il desiderio di fuga, l’essere umano colto nel suo cuore e nella sua profondità abissale.
Cosa succede a quel soldato quando si sveglia? Si ritrova in una realtà violenta, magari sporca e rude (come in Alexandra), o forse è costretto a un ulteriore stato di quiete, in cui da sveglio è costretto a fare i conti con la propria coscienza. È questo il caso di Povinnost, la Confessione di un Comandante che osserva il mondo intorno a lui, e butta giù delle riflessioni su carta, come un contemplatore indifferente; un mastodontico e mistico convegno leopardiano fra la Natura e l’Islandese; una poesia che è coscienza del nulla. La voce fuori campo è l’Uomo, lo spettatore, a cui viene chiesto un coinvolgimento di tutte e tre le sue dimensioni, razionale, sentimentale, istintiva. La natura intorno ai soldati attraccati ad una costa artica-siberiana, o quella che circonda la nave in movimento, sono ancora una volta immagini di profonda poesia sokuroviana, la potenza della montagna innevata, l’ostilità del clima rigido, la persistenza della nebbia, il risucchio distruttivo delle onde, un gigantesco nulla, che rende ancora più (i)sola(ta) l’esistenza del Comandante. È un Purgatorio (o forse un Inferno, visto che viene citato il Caronte dantesco), una nuova Zona tarkovskijana priva di materialità, come un’Arca Russa che viaggia nell’infinito della storia e dell’esistenza, in cui le anime non sono più evanescenti dei corpi, e si spogliano di un approccio più che razionale, “terreno”, per riuscire a sopravvivere. La solitudine bestiale, la distanza esistenziale, la profondità dell’ingenuità di fronte all’onnipresente e onirico cosmo, sia fuori, nel bianco grigiastro di costanti tempeste, o nel bianco caotico della spuma marina, sia dentro, nel verde arrugginito di una nave stretta e luminosa, in cui vagano purganti nudità virili e levigate, sguardi umili e servizievoli, apparenti freddezze ferrose, a cui non spetta nemmeno la scelta se vivere o morire: la cacciata di alcuni dei soldati dalla nave, dopo la lunga sequenza delle visite mediche, sembra proprio una metafora della dipartita, che lascia i soldati rimasti nella nave ancora più soli, mentre le anime dei morti si inabissano nell’oscurità. Il Comandante, che durante questo lunghissimo percorso di formazione comincia a sentirsi lui stesso un ‘traghettatore di anime’, contempla ignari individui come li contempliamo noi, giocando su un dualismo consapevolezza-inconsapevolezza, sapendo che, nonostante lui si senta inerte e immobile, la sua profonda consapevolezza non sopravviverà alla morte, anche se la sua consapevolezza talvolta si traduce in premonizione: qualcuno dei soldati sa che la libertà è sopravvalutata? Qualcuno sa quanto sia vana la profondità dell’interiorità, che negli “ignari” incenerisce la piattezza del reale, e anzi si “proietta” nel reale? Qualcuno sa di essere contingenza, nella sua essenza, rispetto a un imperturbabile Comandante che come la natura priva di compassione e costantemente uguale cerca di amarli ma finisce per non distinguerli nemmeno? Qualcuno sa che in questa realtà incontrollabile eppure tanto insignificante è necessario un rinnovamento delle condizioni basilari? Qualcuno capisce perché “noi abbiamo bisogno del Nord, ma il Nord non ha bisogno di noi”? Sokurov sta concretizzando l’interiorità, ha trasformato il mondo in un sogno palpabile, ha riprodotto in scala l’intera umanità, con un gusto molto più pittorico che cinematografico, e per questo, forse, sperimentale. Come al solito per lui, non c’è l’intento di uno scavo psicologico, ma di un’elaborazione poetica, fatta di niente, e che ci riempie appagando i nostri sensi. Lo scavo psicologico è piuttosto uno scavo riflessivo nella condizione umana, di cui l’esercito diviene metafora: nella vita vige, sia in concreto (l’Esercito) che in astratto (emozioni, sensi di colpa) la Legge del più forte, ma ciò non toglie che il più forte senta tutto il rimpianto di aver sconfitto il più debole. Così la consapevolezza del Comandante diventa appiattimento visivo: i colori si sfaldano in un unicum cromatico che è proprio del sogno, si annullano in improvvisi bianchi (nevosi) e neri (umani). Il sogno definisce il suo senso predominante: la vista. A quel punto né la musica costante (e commovente) né una regia che cerca disperata catartici primi piani riescono a smuovere una gelida e indifferente realtà esistenziale.

Rispetto ad altri film di Sokurov, Povinnost è più impegnativo: altrove infatti il cineasta russo aveva saputo essere anche più evocativo in molto meno tempo (come nell’assurdamente sconosciuto Evening Sacrifice). Qui spesso l’inerzia con cui agiscono i soldati, seguiti in tutte le loro attività, da umili pelapatate a importanti sentinelle, diventa un’inerzia in cui veniamo trascinati anche noi, che osserviamo e percepiamo una Noia esistenziale che salva e rende coerente il ritmo del film, cadenzato e armonico, ma non riesce a placare forse un po’ troppa verbosità. Non è certo una fruizione piacevole, né ha le vette sublimi di Faust, di Madre e figlio o del più semplice Alexandra, ma qui più che altrove Sokurov fuoriesce filosoficamente e poeticamente dalla realtà per studiarla e rilevarne i segreti, ovvero l’innata indifferenza. Peccato che quando inizia la filosofia, finisce la poesia, e il sogno è mera riproduzione di un reale nullo come la Morte.

Diviso in 5 puntate e realizzato per la televisione russa, Povinnost dimostra come il cinema di Sokurov resista a qualsiasi tipo di formato visivo, intrappolando le nostre emozioni. È uno dei tre “colossi sokuroviani”, insieme a A Retrospection of Leningrad di 720 minuti circa, e al misteriosissimo Le voci dello spirito di 328 minuti.

Alla fine i soldati si addormenteranno, e sogneranno di laghi, di frutti di bosco, di voci femminili e rumori di battaglia, confusi nel suono metallico dei passi nella nave. Fuori dalla nave, altri comandanti cercheranno una consolazione concreta nel fuoco e nella luce. Dentro la nave, altrove, il Comandante pensa. Lui non riuscirà a consolarsi. Lui non riuscirà a dormire.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati