Regia di Roy Andersson vedi scheda film
Giliap (Thommy Berggren) è un cameriere che trova lavoro in un albergo che, a dispetto dell'aria elegante che cerca di conservare, è votato ad un irreversibile decadenza. È un uomo taciturno Giliap che compie le sue mansioni con doverosa scrupolosità. Sul luogo di lavoro ha modo di conoscere persone alquanto variegate, ognuna portatrice di una propria dolente malinconia. Tra questi c’è Gustav (Willie Andréason), un uomo abbastanza losco che gli promette successi economici in cambio di pochi rischi. E poi conosce Anna (Mona Seilitz), la bella cameriera bionda che dona un po' di colore all'opacità del luogo. Le loro solitudini sembrano fatte apposta per mettersi insieme. E infatti si innamorano vicendevolmente, anche se il loro amore ha ben poche possibilità per potersi sviluppare.
Dopo il film d'esordio “A Swedish Love Story”, incentrato sull'amore adolescenziale di due ragazzi che segue un canovaccio abbastanza classico rispetto a quello cui ci abituerà il fare cinema di Roy Andersson, ”Giliap” rappresenta una sorta di tappa propedeutica all’interno della sua filmografia. Un film intriso di malinconia a cui non mancano elementi grotteschi che ne alleggeriscono l’andamento narrativo. Un falso noir, insomma, che ha il merito (per così dire) di anticipare di qualche decennio alcuni dei tratti distintivi della poetica dell'autore svedese. D’altro canto, occorre ricordare che a causa dello scarso successo finanziario incontrato da questo film ci vollero infatti 25 anni prima che Roy Andersson potesse mettere mano alla realizzazione di un altro lungometraggio.
Come già accennato, “Giliap” sembra gettare le basi della trilogia “sull'essere un essere umano”, tutta incentrata sul riflettere in chiave visionaria sulle evidenti difficoltà del genere umano ad essere felice. Certo è che 25 anni sono tanti e rispetto ai diversi input ricavati dalla speranza di cambiamento su cui gli anni 70 davano ancora ampie possibilità di poter investire, dal punto di vista di Roy Andersson la trilogia (che, ricordiamo, inizia nel 2000 con “Canti dal secondo piano”, per poi proseguire con “You, the Living” del 2007 e concludersi con il Leone d'oro a Venezia “Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza" del 2014) nasce proprio per riflettere sulla perdita delle speranze per un mondo migliore. E lo fa adottando delle soluzioni visive che tendono a qualificare la presenza del disincanto come una forma di attitudine umana subitamente riconoscibile tra le pieghe della narrazione.
Non c’è ancora la dimensione pittorica a delineare il linguaggio della messinscena e neanche la narrazione è totalmente dominata dall'immobilismo dei corpi e l'apatia delle menti. Ma in esso è già presente quell'atmosfera straniante che aleggia nell'aria come a voler corrompere sul nascere ogni anelito di bella speranza. Così come lo stesso protagonista sembra incontrare un'estrema difficoltà a ricercare la felicità rimanendo a tutti gli effetti sé stesso. Non sono già "cadaverici" i lineamenti del suo volto, ma isuoi pensieri sembrano già nascere dimezzati.
Lungo tutto il film, Giliap rimane un uomo estremamente enigmatico, un cameriere che usa la laconicità come il vestito più adatto al lavoro che fa e alla vita che compie. Si muove sempre con fare circospetto, come chi sembra perennemente al confine tra quello che si vorrebbe essere e quello che si è costretti a fare. È certamente un buono ma non si sottrae alle lusinghe di individui poco raccomandabili, si accompagna a loro ma dando l'idea di avere sempre un piede pronto per la fuga. Dalla sua persona emerge quella sensazione di palpabile indeterminatezza tanto cara a Roy Andersson, quella perdita di coordinate fisiche e affettive che rendono incoerenti le relazioni tra il dove si è arrivati con la propria storia e dove e come si intende procedere. Lo stesso vale per un luogo fisico come l'albergo in cui lavora Giliap, un’attività decadente che può vantare solo un antico splendore e un ostinato rispetto dell'etichetta al cospetto di un presente chiaramente votato al declino.
Oltre all’indole straniante e alla venatura finto noir, “Giliap” si sviluppa anche (se non soprattutto) nella bella storia d'amore tra il cameriere è Anna, due anime taciturne che riconoscono la rispettiva lucentezza in un milieu avaro di colori e calore. Il loro amore non è di quelli dall’andamento fulmineo che ci impiega poco a riscaldare i corpi, ma agisce molto lentamente, masticando parole in vigilanza controllata e manifestandosi in entrambi come quell'unica nota di colore in un'esistenza opacizzata.
E intorno alla lenta costruzione del loro amore che RoyAndersson imbastisce un canovaccio filmico più classico e lineare, finendo per declinare l'anima grottesca che percorre sottilmente il film in risvolti inevitabilmente tragici. Un buon film di un autore non ancora grande.
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