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Quell'ultimo giorno - Lettere di un uomo morto

Regia di Konstantin Lopushansky vedi scheda film

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La recensione su Quell'ultimo giorno - Lettere di un uomo morto

di Peppe Comune
8 stelle

L’umanità potrebbe scomparire a causa di un banale errore capitato in una qualsiasi centrale nucleare. Questo è quello che succede in un luogo e in un tempo non ben precisati della Russia : un guasto ai sistemi di sicurezza della base militare ha mandato il mondo sull’orlo della catastrofe definitiva.  I sopravvissuti vivono sotto terra, nel sotterraneo di quello che era un grande museo, simbolo di una cultura che deve scomparire dalla memoria degli uomini. Sono ritenuti ufficialmente morti questi sopravvissuti, perché solo le autorità militari possono decidere chi può risalire in superficie e contribuire a ripristinare l’ordine costituito. Tra i “morti” c’è anche Larson (Rolan Bykov), uno scienziato cibernetico che si ritiene in parte colpevole dell’accaduto perché i suoi lavori sono capitati in mani sbagliate. Nel sotterraneo, Larson scopre il corpo agonizzante della moglie (Vera Majorova) e cerca di alleviargli la sofferenza. Lui potrebbe ritornare in superficie, ma dopo la morte della moglie, decide di dedicarsi alla cura di un gruppo di bambini destinati alla morte sicura. Nei sotterranei, intanto, si ragiona sui motivi della catastrofe, sul destino tragico dell'umanità, sul futuro che comunque deve conservare la vita. 

 

        

 

“Lettere di un uomo morto” di Konstantin Lopuschanskij (già sceneggiatore e assistente alla regia di Andreij Tarkovskij) è un film dal fascino ipnotico che ragiona intorno ai limiti e alle manipolazioni arbitrarie della scienza per perorare la causa della ragione ricondotta alla sua matrice umanizzante. Un film che riflette il clima di dismissione latente che da lì a pochi anni avrebbe portato all’implosione del regime Sovietico. Si era all’inizio del processo di riforme voluto da Michail Gorbaciov denominato Perestroika, in un clima di fervente “ristrutturazione” dell’intero apparato burocratico del paese, lontani quindi dai diktat stilistici imposti dal dirigismo “brezneviano”, ma ancora dentro un sistema politico che faceva sentire forte la sua pressione ideologica. Konstantin Lopuschanskij è stato bravo a svincolarsene adottando (alla Tarkovskij di “Stalker”, per intenderci) un approccio fantascientifico che assomma fascinazione del racconto declinato in chiave “apocalittica” e denuncia politica sullo stato delle cose. L’autore russo, infatti, nel mentre conduce la narrazione in un tempo e in uno spazio futuribili, senza delle coordinate fisiche riconoscibili, a strtto contatto con l'inizio della fine, riflette sugli effetti cancrenosi che una politica che investe tutto sulla corsa agli armamenti, sulla fiducia fideistica accordata alla scienza e sul mantenimento di un poderoso apparato burocratico, può produrre.  

Lopuschanskij ci porta nei meandri di un mondo sommerso che sopravvive al suo irreversibile declino, un mondo popolato da un’umanità sfiancata da un dolore che essa stessa ha contribuito a prodorre, delle ombre che conservano intatte una loro concreta dignità. Lopuschanskij attua una sorta di differenza speculativa tra ciò che rimane del mondo di superficie e il quello sotterraneo : sopra, il potere costituito lavora sempre per irreggimentare i sopravvissuti dentro progetti di difesa militare del paese ; sotto, i “morti” ragionano sulle cause del disastro e pensano al futuro con rinnovata compassione per la vita che resta. Una differenza che, da un lato, misura il grado di disumanità che ha divorato l’essenza naturale del mondo sensibile, fino a renderne irrespirabile l’aria, imbevibile l’acqua e irriconoscibile ogni forma di vegetazione conosciuta. Dall’altro lato, invece, sta ad indicare come il potere deve rivoluzionare totalmente il suo carattere corporativo se non vuole riproporre sempre lo stesso ordine delle cose.  L’atmosfera apocalittica ci è resa attraverso una forza delle immagini che sanno mitigare nella loro potenza visiva la cruda descrittività di una delle facce possibili della fine di tutto. Una fotografia monocromatica virata in giallo, i segni della distruzione catturati con precisione dalla macchina da presa, un’ambientazione uniforme e claustrofobica, la marzialità del dispotismo militare, le maschere a gas a fare da simbolo iconografico dell’intera storia. Tutti questi ingredienti danno alla messinscena una palpabile sensazione di caducità. Eppure, il pessimismo non è totalizzante in “Lettere di un uomo morto”, perché c’è ancora la vita che pulsa dentro la morte, c’è sempre la ragione a rivendicare il suo ruolo oltre la disumana perdita dell’innocenza, c’è ancora la volontà di resistere contro il dispotismo politico che trova sempre il modo per rigenerarsi.

C’è una sequenza molto bella tutta concentrata sulle parole accorate pronunciate da un vecchio professore. Parole che trasmettono una profondità filosofica semplice e disarmante che, non solo esemplificano molto bene il senso di questo film, ma si pongono anche in una percepibile continuità filologica con la migliore tradizione del cinema russo. Questo professore è ormai rassegnato al suo destino, ma cerca di raccogliere le sue ultime forze morali ed intellettuali perché intende parlare “come un uomo morto ad altri uomini morti” della "natura biologica dell’uomo". L’umanità è alla fine e bisogna tirare le somme, e occorre farlo con “calma, senza volgarità”.

“L’umanità era una specie tragica – attacca il professore – destinata a fallire forse dall’inizio. Il nostro fatale e meraviglioso destino è sempre stato quello di fare il passo più lungo della gamba, essere meglio di ciò che la natura aveva predisposto. Abbiamo trovato uno spazio dentro di noi per la compassione, anche se contrastava con l’istinto di sopravvivenza. Siamo riusciti a provare rispetto per noi stessi, anche se veniva sempre calpestato. Creato capolavori, capendo la loro inutilità e fragilità. Abbiamo trovato in noi stessi la capacità di amare. Oh Signore, quanto è stato difficile ! Per un tempo inesorabile ha creato ai nostri corpi pensieri e un senso di decadenza. Ma l’uomo ha continuato ad amare. E l’amore ha creato l’arte, un’arte che riflette il nostro insostenibile desiderio di perfezione, la nostra immensa disperazione e il nostro grido eterno di terrore, un lamento di creature pensanti, desolate nel freddo e impassibile deserto”.

Ecco, a mio avviso, queste parole conservano delle assonanze speculative e una riconoscibile coerenza formale con altre rinvenibili in tanto cinema russo del secondo dopoguerra (Tarkovskij, Sokurov, German, Klimov,Shepitko, Muratova, Mikhalkov, Kanevski, Aristakisjan, Balabanov …..), e non solo perché si pongono lungo una linea di continuità stilistica che trova nella forma cinema il modo migliore per fa emergere le proprie istanze speculative, ma soprattutto per come riflettono il carattere di un popolo posto di fronte agli sviluppi presenti e futuribili ricavati dalla storia tragica della “grande madre Russia”. L’arte, per quanto tende ad essere in ogni caso universale, conserva sempre un qualcosa che la riconduce alla storia particolare da cui trae origine. Soprattutto quando nasce in luoghi dove si sente forte l’urgenza di far uscire verso l’esterno la voce resistente del dissenso. La Russia, con la sua la storia a dir poco complessa, risponde appieno a questi requisiti, così come questo grande film di Konstantin Lopuschanskij. Perché solo chi ha conosciuto fino in fondo il senso del terrore può dichiarare, come fa il professore nel suo accorato soliloquio, di amare l’umanità proprio per “il suo destino tragico”. Perché solo chi ha provato sulla propria pelle la faccia disumana del potere e sa di essere un morto che vive, può dire ai propri compagni un “vi amo” carico di beata e sofferta gratitudine.

“Lettere di un uomo morto” è un film che per contenuti narrativi è certamente figlio del periodo storico che lo ha visto concepire. Ma per architettura della messinscena, perizia registica e potenza visiva delle immagini, è semplicemente grande cinema che resiste all’usura del tempo.  

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