Regia di Elia Kazan vedi scheda film
Film maccartista. D'accordo, di grande fascino, ottimamente diretto ed interpretato, ma sempre di pellicola smaccatamente maccartista si tratta (per usare un paradosso, probabilmente è "la migliore" del genere), e questo aspetto non marginale pare sfuggire ai più. Fu realizzato nel 1954, storicamente l'ultimo dei virulenti anni della caccia alle streghe (dal "55 inizierà la lenta fine di quell'incubo illiberale), da Kazan e Schulberg in un momento delicatissimo della loro vita (erano simpatizzanti di sinistra, ergo pericolosi criminali comunisti negli Stati Uniti dell'epoca). Entrambi subivano da tempo pesantissime pressioni da parte della commissione d'inchiesta, e dopo il preannunciarsi di un'incriminazione (si rientrava nel reato di attività antiamericane e la condanna era pressochè automatica), avevano ceduto al ricatto, testimoniando contro amici e conoscenti (di analoghe passioni politiche), alfine di ottenere la "redenzione" patriottica. Immediatamente riabilitati, regista e sceneggiatore misero in lavorazione (con quale autonomia?) un film sulla storia di un portuale complice di una banda di delinquenti (i rossi!) dedita a dominare sotterraneamente il racket della manovalanza, opprimendo e taglieggiando la popolazione onesta, ed uccidendo chiunque fosse tentato di ribellarsi, e coinvolgendo in quel clima omertoso tutta la comunità, familiari compresi (il fratello). Poi ecco la morale della favola: grazie all'amore di una brava ragazza (il sogno americano ferito), all'appoggio della polizia federale (Governo e Commissione), ed all'aiuto di un prete coraggioso (la religione integerrima), Malloy (Brando) si ravvede ed arditamente denuncia il clan organizzato, facendolo condannare e subendo l'amaro contrappunto del disprezzo degli "ex-compagni", condito da alcune tremende vendette trasversali. Happy end di rito, grande successo di pubblico e critica, e pioggia di Oscar nel "55. Fra gli altri candidati c'era pure, non a caso, "L'ammutinamento del Caine" di Dmytryk, altro delatore "spontaneo" (precedentemente incarcerato) momentaneamente riaccettato dall'industria (vale la pena segnalare che chi non si piegò, vedi Polonsky e Wilson, fu estromesso per decenni, o costretto a lavorare sotto falso nome fino agli anni "70). Fronte del porto è in sostanza un film nient'affatto ambiguo, ma ideologicamente falsato dai condizionamenti delle autorità, limitato nelle scelte dalla follia collettiva della gran parte dell'opinione pubblica anni "50 (cui gli autori si uniformarono), profondamente scorretto nel messaggio sotteso (il becero conservatorismo come fucina dei valori fondanti della nazione; la giustificazione della delazione, da argomentare ovviamente ed inevitabilmente, proponendo il "nemico" come un avversario spietato, fuori dalla legge, spesso appartenente alla ristretta cerchia degli affetti). E' una lettura etico/critica in seguito abilmente ribaltata da molti (Kazan in primis), in base alle mutate convenienze della nuova situazione sociale statunitense, tuttavia, secondo il mio parere, da ricordare e rinvigorire in sede di valutazione generale. I sensi di colpa del regista trapariranno autenticamente in diverse opere successive (Splendore nell'erba, Il compromesso, I visitatori) e, pur fra alti e bassi, con una coerenza di contenuti e risultati nitidamente speculare a On the Waterfront.
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