Regia di Wes Craven vedi scheda film
“L’ultima casa a sinistra” è uno dei remake più seminali che si siano mai visti. Sì, remake. Ad essere a conoscenza di ciò sono purtroppo solo certi cinefili doc, e appunto per questo ci tengo a ribadirlo: tutto cominciò da Bergman, per l’esattezza da quel capolavoro che è “La fontana della vergine” (1960). Lì eravamo nella Svezia medievale, qui invece ci troviamo nel 1972: l’epoca dei figli dei fiori è da poco finita, resta quella disillusione che avrebbe accompagnato tutto il decennio (cinematografico e non) dei seventies. Ecco il terreno fertile per l’emersione del lato oscuro della hippie generation; generazione che, indossando al collo catenine col simbolo della pace, è ignara di quella violenza ereditata da un’America in piena guerra del Vietnam.
“L’ultima casa a sinistra” è infatti, più che il suo predecessore e più dei rifacimenti che ad esso seguiranno, un film figlio della propria epoca.
Ho all’inizio esplicitato quanto l’opera in analisi sia seminale. Al di là dei rimandi politici e sociali, infatti, questo esordio di Craven ha gettato le basi per tutto il “rape & revenge” movie a venire (sarebbero arrivati “Non violentate Jennifer” – 1978 – e una considerevole schiera di opere affini).
Oltre a ciò, l’ambientazione e l’efferata messa in scena della violenza avrebbero fortemente ispirato “Venerdì 13” (1980). Sean S. Cunningham, futuro regista del capostipite della saga, rende in questo senso significativa la propria presenza in veste di produttore in questo film.
Mirabile esempio di cinema maiuscolo con pochissimi mezzi, la pellicola si mostra del tutto degna della futura gloriosa carriera cinematografica di Craven.
Può disturbare, può disgustare, può infastidire nel suo scoperto intento di colpire lo stomaco dello spettatore. Probabilmente così sarà; non a caso la sua fama è dovuta anche e soprattutto a questo.
Ma sotto c’è qualcos’altro: ciò che interessa a Craven è una traslazione, è il trasferimento al genere horror del soggetto bergmaniano. Nell’autoconsapevolezza di questo intento, egli si dimostra un abile sperimentatore. Del resto il concetto stesso di genere, nonché la reinvenzione dello stesso partendo da basi prestabilite, si sarebbe dimostrata una vincente costante del suo cinema (vedi, tra i tanti, “Scream”).
Con un remake italiano diventato un piccolo cult (“L’ultimo treno della notte”, 1975) e un riuscito omonimo rifacimento americano del 2009.
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