Regia di Cédric Kahn vedi scheda film
Se vi è un colore che più simboleggia questo terzo lungometraggio del regista Cédric Kahn, è proprio quel rosso/rouge che impregna i fotogrammi più emblematici: la fugacità di quei fanali posteriori che brillano intorno al microcosmo creato all'interno dell'autovettura, le luci/feux tentatrici dei locali che invitano alla perdizione il protagonista, il bordeaux della felpa dell'antagonista, e il sangue che dà un'immagine orrorifica ad una scena ricolma di suspance.
Praticamente priva di colonna sonora, la storia procede in un silenzio cupo e misteriosa, procedendo su un autostrada, testimone di carneficine sia intese come brutali incidenti che come accesi litigi familiari (ormai impossibili da evitare). Una coppia sposata, dove il marito si vede portar via il suo ruolo di "maschio", da una donna in carriera dotata di una personalità più brillante. Egli, continuamente oppresso dal pensiero di sottomissione, finirà per non voler neppure abbandonare il suo posto di guidatore, ultima piccola soddisfazione di controllo sulla moglie, mostrando con evidenza il suo potere (e diritto) di scegliere percorsi, soste e metodologia di guida.
La divisione dalla moglie fa precipitare in un incubo allucinato il protagonista; che annega nell'alcool e nei ricordi più felici, ricercando continuamente una nuova metà su cui sfogarsi e non sprofondare nella solitudine. Ci riuscirà, ma al termine di uno sfogo liquoroso vi sarà violenza e una vendetta inconsapevole; una disgrazia che, malgrado il riacquisto di una posizione da maschio protettivo, pagherà un prezzo altissimo, danneggiando irremediabilmente la psiche del protagonista.
Fatto di tempi lunghi, quasi letterari, il film non cerca di conquistare attraverso la sceneggiatura, ma tramite momenti lunghi e poco comunicativi dove la tensione cresce inesorabile e silente, spostandosi dal melodramma al noir. La regia è scarna, essenziale, chiunque riesce a notare la raffinatezza delle riprese, il quale obbiettivo principale è far parlare la storia, non i protagonisti. Tuttavia, una delle scene più riuscite è proprio il lungo piano sequenza dove con le sole parole del telefono vengono ricostruite le vicende della moglie scomparsa, una scena straordinaria.
Ad aiutare tutto ciò, vi sono tre ottimi attori che con la sola espressività, riescono a trasmetterci stati d'animo e farci immedesimare nel loro inconscio meglio di qualsiasi dialogo. Jean-Pierre Darroussin è perfetto nel suo ruolo di borghesuccio mediocre e alcolizzato, come lo è Carol Bouquet nel rappresentare una moglie sconsolata e di carriera. Stessa cosa su Vincent Deniard, una maschera glaciale, che solo alla fine si scioglie per rivelare il vero mostro che si cela dietro di essa. Niente da dire sulle scenografie che sono l'aspetto più riuscito del film.
Purtroppo ad una pellicola così pregna di significato vi sono problemi piuttosto evidenti. La trama prima di tutto, non riserba particolari colpi di scena, anzi fin da subito si capisce verso che strada penderanno gli eventi, il finale, addirittura, cade nello scontato, da cui derivano tedio e disinteresse nello spettatore. Oltretutto l'aura onirica che il film possedeva, fino all'arrivo in ospedale del protagonista, viene accantonata per far posto a scene prevedibili e fatti inconcludenti: su tutti l'indagine di polizia. Eccedendo persino nel dilungamento e risultando dunque pesante nel suo giungere al termine.
Non fosse per l'inconcludente e uggioso finale sarebbe stata un'ottima pellicola. Resta comunque una buona opera che con le sue immagini significative e attori strepitosi conquista il pubblico facendolo attraversare un incubo in bilico tra realtà e finzione.
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