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Bittersweet Life

Regia di Kim Ji-woon vedi scheda film

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La recensione su Bittersweet Life

di (spopola) 1726792
8 stelle

Il regista ci regala un noir cupo ed inquietante di forte impatto empatico che ha uno dei suoi punti di forza in una impaginazione visiva iperviolenta e colorata e gioca molte delle sue carte proprio sul contrasto della tavolozza pittorica (strepitosi gli accesi toni di rosso e verde) oltre che sui personaggi e sulle suggestive ambientazioni

Bittersweet Life è una delle pellicole “cardine” a cui – in anni ormai lontani, visto che il film è datato 2004 - va attribuito il merito di averci fatto conoscere e apprezzare la straordinaria complessità narrativa e formale del cinema coreano moderno con tutta la prepotente (a volte anche spiazzante) carica di violenza che si porta dietro (tutt’altro che una superficiale esposizione muscolare delle cose però poiché qui lo scavo è sempre problematico e talmente profondo da mettere in gioco portandoli in assoluto primo piano - persino “oltre i fatti nudi e crudi” che qualche volta seguono nella trama le tracce consolidate e largamente condivise del “genere di riferimento” che è poi quello del  thriller esistenziale aggiornato ai tempi – non solo i rapporti, ma anche i sentimenti, spesso amplificati fino alle più estreme e tragiche conseguenze). Un cinema insomma molto innovativo e supportato nei suoi risultati più eclatanti, da uno stile particolarmente elaborato che può sembrare a volte (in apparenza) quasi “estetizzante” (rischio che ben di rado viene corso però) pregno com’è di insolite, affascinanti invenzioni espositive e di sintassi, e magistralmente costruito sui ritmi di un montaggio sinuoso e avvolgente, tutti elementi che lo rendono più che unico, inimitabile, di quelli che  hanno comunque il raro privilegio (ma anche la responsabilità) di portare forti ventate di novità capaci di “fecondare” (purtroppo non sempre in positivo) anche molte delle cinematografie occidentali di riferimento forse però più pronte ad impossessarsi delle forme esteriori della rappresentazione che della sostanza e dei contenuti che qui non sono invece mai secondari elementi e che – come già detto – spesso si impongono persino sul conformismo della storia  che diventa così all’improvviso e quasi per miracolo “diversa ed emozionante” suo malgrado, non tanto per ciò che dice, che pure non è di secondaria importanza, quanto per le soluzioni adottate nella messa in scena  e per le implicazioni che si porta dietro dense di “seduzioni” tutte di stampo prettamente “cinematografico” che la fanno diventare unica e irripetibile. E’ in quest’ottica di assoluta creatività anche estetica, che Kim Ji-woon si conferma come uno dei più interessanti nomi del panorama internazionale, di quelli cioè che con la loro opera, hanno sostanzialmente modificato la percezione emozionale  dello spettatore aprendola a nuovi orizzonti e modalità espressive.
Già autore dell’inquietante Two sisters, il regista ha poi confermato il suo talentuoso valore proprio con questo Bittersweet Life, una pellicola altrettanto spiazzante, iperviolenta e colorata (strepitosi gli accesi toni di rosso e verde che la animano dall’interno, grazie al suggestivo uso di una fotografia fortemente empatica opera di Ji-yong Kim che gioca molte delle sue carte proprio sul contrasto dei colori) e dove l’ambiente e i personaggi che la animano, più che eroiche figure, sembrano essere assimilabili a solitarie presenze abnormi e un po’ mostruose rinchiuse – più esatto dire imprigionate – dentro a una inaccessibile torre di cemento che non solo non permette evasioni, ma che costringe a seguire il percorso di un destino implacabile, crudele e a suo modo anche beffardo.
La sensibilità visiva del regista è davvero notevole e si conferma come una delle principali doti creative che caratterizzano il suo stile magnetico e di forte impatto capace di regalarci un noir d’azione cupo ed inquietante come pochi altri.
La storia è presto detta: il suo protagonista (Sun-woo) è il manager di un lussuoso albergo di proprietà di un “cattivissimo” boss mafioso, al quale – tra gli altri gravosi compiti – viene affidato anche quello di sorvegliare la  giovane (e forse infedele) amante del capobanda, Hee Soo, ammaliante bellezza sensuale e appassionata. Il suo prioritario compito è dunque quello di seguire la ragazza e di eliminarla senza alcuna pietà se sorpresa a compiere atti che confermano il suo palese (ed evidente) tradimento. Tra i due sboccia però un tenero rapporto affettivo, e questo cambia notevolmente il senso e le prospettive fino a stringere Sun-woo fra l’incudine e il martello (il sentimento attrattivo e difensivo verso la ragazza da una parte, e il senso del dovere e dell’onore dall’altro che mettono a dura prova la sua coscienza di uomo e di “esecutore integerrimo” degli ordini del capo), tanto che a un certo punto della storia – come era per altro davvero prevedibile immaginare visto che alla fine la trama non solo è molto lineare, ma segue anche precisi schemi ben oliati e conosciuti, inevitabile  retaggio “strutturale” di buona parte di queste pellicole “di genere” – l’uomo si ribella al suo “dovere” e di conseguenza, all’ordine ricevuto finirà  per non far corrispondere più la realizzazione pratica dell’azione richiesta (l’esecuzione “materiale” della fedifraga). Da braccio destro del boss , l’uomo si trasforma così nel coercibile bersaglio della ritorsione violenta e punitiva di chi ha visto così platealmente disattesi i suoi inappellabili ordini giustizialisti.
Vicenda dunque molto lineare quella narrata, scritta utilizzando degli stereotipi persino un tantino usurati: il buono e il cattivo, la bella da salvare, l’incapacità di uccidere, il tradimento della missione, la ribellione, e di nuovo – alla fine - la contrapposizione estrema fra l’eroe e il suo feroce antagonista e i suoi sicari. Stereotipi  consunti, questo è vero e indiscutibile, ma qui assolutamente funzionali all’azione (ricordandosi sempre che è soprattutto importante per la riuscita di un’opera, la modalità con cui vengono messi in scena i fatti,  che può benissimo riuscire – come nel caso attuale, a rendere eclatanti anche quelli più banali), come succede appunto in questa straordinaria pellicola che privilegia prioritariamente l’effetto delle azioni anche rispetto alle cause che le hanno determinate. La variazione (anche di prospettiva) è importante e fondamentale, una di quelle circostanze anche elementari, che da sole riescono a dare nuovo respiro alle cose. La differente percezione dell’”ovvio” che non è più acquisito come tale,  sta infatti  tutta in questa dissonante ottica del racconto capace di avvolgerlo in una diversa luce, visto che proprio modificando così radicalmente la prospettiva della visione, per una volta è proprio la  vendetta – un tema centrale che attraversa e sorregge una buona parte delle pellicole di genere della cinematografia orientale (soprattutto quelle prodotte in Corea) da Old boy fino a Lady vendetta di Park Chan-wook, passando per Address unknown di Kim Ki-duk – a non essere più l’elemento portante, o almeno quello degno di una analisi critica: è preponderante anche qui, ma rimane presente quasi in sottotraccia, mentre come già prima accennato, il punto focale e pulsante, quello davvero prioritario, diventa la relazione (il rapporto che si crea) fra luoghi e personaggi che porta a variarsi nel progredire degli eventi e nella trasformazione delle figure e dei posti  in cui si trovano a interagire.
All’inizio siamo così  calati anche come spettatori, dentro il lussuoso albergo e le sue luci  soffuse, un luogo ricco di particolari esornativi e fortemente caratterizzanti dell’ambiente, ma anche abitato da persone servili e ossequienti, esattamente come il volitivo ma a suo modo “sottomesso” Sun-woo che proprio a causa della specifica scelta a cui deliberatamente approda per una inaspettata fascinazione dei sensi (quella di non eseguire gli ordini che gli sono stati impartiti) finisce per cadere in uno stato di progressiva perdita di sé che lo trasforma ma non lo modifica e gli rende semmai solo più difficile confrontarsi con ciò che lo circonda facendolo diventare all’improvviso alieno a sé stesso, al suo mondo d’origine e al suo modo di pensare. La sua disubbidienza non è infatti dovuta a un atto della coscienza e non porta di conseguenza alcuna traccia morale di un ripensamento etico. Per questo, non può e né vuole aspirare a diventare un modello esemplare di “conversione”: rimane semplicemente il logico approdo di un innamoramento che non doveva aver luogo, e che poi nel progredire degli eventi, si trasforma nella meccanicità comportamentale di difesa ad ogni costo,  che rimane strettamente connessa proprio con l’istinto primario della sopravvivenza insito in ogni individuo.
Tutto concentrato sugli elementi di “effetto” che devono generare emozione nello spettatore, a un certo momento il regista sembra quasi smarrissi in un eccesso di esasperato tecnicismo che se da una parte mette in evidenza la sua straordinaria preparazione anche teorica e la sua profonda  conoscenza della settima arte, dall’altra gli fa correre il rischio (schivato per un pelo) di danneggiare con il suo eccesso di esasperato formalismo, l’intero risultato. Il recupero in corner è straordinario, così prepotente però da annullare alla fine ogni pericolo di deriva in quella direzione, poiché è il frutto di uno stile maturo e meditato che si fonda sulla perfezione assoluta delle inquadrature che risultano semmai “esaltate” e non “schiacciate” dall’eccesso ingombrante dei numerosi dettagli figurativi che vi convivono dentro e che diventano alla fine l’elemento trainante e fortemente identificativo della pellicola stessa.
Come già detto, la fotografia – realizzata per altro da un esordiente di indiscusso talento – è davvero curata nei minimi particolari, elegante e fortemente strutturata, capace di sottolineare magnificamente la molteplicità degli ambienti che fanno da sfondo a questo struggente, sotterraneo calvario di anime in pena  e in conflitto persino con le proprie pulsioni.
Anche il ritmo si fa via via più incalzante comparandosi al progredire frenetico di un’azione in crescendo, sostenuta da una sapiente calibratura delle sequenze sempre più ricche di sangue e di solitudine esistenziale, in una pellicola in cui  ben presto tutto diventa anarchia e caos, col suo dolce e penoso fluttuare dentro un sempre più indecifrabile magma  fatto di sofferenza e bellezza. Alla fine, questi due stadi, appartenenti in apparenza ad insiemi differenti e quasi inconciliabili, grazie alla mano sicura di chi li domina magistralmente e li utilizza poi con sapiente e navigata maestria, finiscono così per incastrarsi magnificamente (e paradossalmente) fra loro, lasciando magari all’inizio un po’ spiazzati gli spettatori che non erano preparati a tale percorso evolutivo,  ma alla fine assolutamente ammaliati dall’opulenza anche strutturale del risultato, di fronte a quei personaggi  sempre più sporchi di sangue e con tutte le ossa rotte (in senso reale e metaforico) che lo trainano verso un finale  davvero geniale e parossisticamente dilatato fino all’eccesso, surreale e quasi metafisico, e come tale capace da solo di fornire altre intriganti ipotesi di lettura, nel suo espandere quasi all’infinito la durata rabbiosa di uno sparo che colpisce anche il cuore  profondo delle nostre paure e rende sublime questa pellicola che trasuda davvero bellezza ed eleganza formale da ogni poro. L’uso che qui si fa del tempo e dello spazio è una modalità di rappresentazione  un tantino barocca che noi conosciamo perfettamente  perché assomiglia molto (almeno a me sembra che sia così) alla forma “speciale” che caratterizza a suo modo anche le opere della maturità di Sergio Leone (ma è solo un paragone che riguarda le sensazioni suscitate dalla forma e che non intende quindi rappresentare alcun reale raffronto di valore)e che mischia miracolosamente assonanze strutturali che soaziano da Melville a Scorsese a molti altri numi tutelari del genere, rivisitati però con uno sguardo profondamente orientale che fa la differenza.

Violenza vendicatrice e sontuosa regia al limite di una esasperazione un tantino estetizzante dunque, (come scrive proprio Filmtv) corroborata però dall’eccellente apporto di un protagonista di rango davvero superiore, un Lee Byung-hun in forma strepitosa (in assoluto stato di grazia, si può dire) capace di conferire credibilità (e di rendercela indimenticabile) a una figura a tratti sfuggente e per molti versi quasi “tragica”, ma sufficientemente forte e motivata per tentare di fronteggiare con appassionata convinzione la miriade di insidie che gli si presentano davanti e di opporsi con tutta la forza e la determinazione della sua passione al furore degli eventi che  provano a interferire con la sua vita e il suo futuro mettendo a dura prova la sua indomita determinazione.
Ottima anche la sceneggiatura, con calzanti dialoghi sospesi spesso fra l’ironia e la poeticità e ben supportati da un adeguato commento musicale che ne esaltano il senso: un film insomma che colpisce subito al cuore lo spettatore e lo trascina con sé fino alla fine con quel suo essere inquietante  e inesorabile come una nemesi alla quale è impossibile sottrarsi e che non suggerisce ipotesi positive di speranza poichè – sembra voler indicare alla fine –  l’unica possibile ipotesi di felicità (e di via d’uscita) è rintracciabile solo nella dimensione friabile del sogno.

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