Regia di Carlos Reygadas vedi scheda film
Un film di difficile digeribilità che fa intravedere l’esistenza di un talento non comune ma che avrebbe bisogno di essere tenuto a bada con più controllo e meno volontà di stupire a tutti i costi. Notevole il commento musicale e la lunghissima sequenza della processione in ginocchio verso il santuario fra ali di folla in preghiera.
Difficile esprimere un giudizio oggettivo su un film così particolare. A tratti fastidiosa ed eccessiva, la pellicola è spesso presupponente e velleitaria, ma al tempo stesso è anche affascinante e personale nello stile con arditi movimenti della macchina da presa e la contrapposizione di musiche e sottofondi che vanno dalla sublime esecuzione di una struggente partitura cinquecentesca per la insostenibile scena (più per la durata che per gli effetti “disturbanti” dell’atto) della “fellatio” iniziale, poi ripresa e amplificata nel finale, al semplice contrappunto ossessivo del ticchettio ritmico di orologi e sveglie che rappresenta il reiterato tessuto sonoro di moltissime sequenze emozionali. Si avverte insomma la volontà tutta di testa di una “costruzione” più pensata che sentita dell’abile manipolatore che ha deciso di usare la provocazione come “elemento espressivo” di rottura, quasi si trattasse della dimostrazione di un teorema finalizzato ad evidenziare senza ombra di dubbio che lui, il regista, “ha il coraggio di osare” senza pudori o remore, che riesce a giocare con i corpi, il sesso e la violenza, senza pregiudizi o tabù (e lo fa con la forza di immagini spesso estremizzate che lasciano davvero poco all’immaginazione), ma con un uso quasi raggelato dei corpi e dei movimenti, che “astrattizzano” in qualche modo la percezione degli avvenimenti. La storia (Marcos, di professione autista, è un povero diavolo che vive a Città del Messico che si aggira come un automa inanimato su sfondi di miseria e di superstizione religiosa, con il pesante senso di colpa di un rapimento finito con la morte del bambino sequestrato e la necessità di confessare e “raccontare” l’accaduto per subirne le conseguenze, fra scene di sesso inanimato con l’obesa moglie e la più accattivante Ana, figlia del suo datore di lavoro, contraddittoria esponente di quell’alta borghesia messicana senza etica e morale, che ama prostituirsi per noia ed abitudine, e che diventerà poi la vittima sacrificale dell’estremo atto di violenza che concluderà la parabola esistenziale dell’uomo) è quasi epica nella sua costruzione a spirale senza sussulti di questa progressiva discesa nella follia e nel delitto, e non c’è alcuna partecipazione emotiva da parte del regista (né è richiesta allo spettatore) che si realizza, dopo la violenza, in un pellegrinaggio “di redenzione” fortemente significativo di un connotato religioso arcaico e superstizioso che apre squarci desolanti sulla condizione di vita di un popolo e di una nazione. Titolo ambiguo (cos’è questa “battaglia nel cielo”, cosa vuol significare?) come ambiguo risulta essere il film e la sua finalità effettiva. Impossibile da classificare, e di difficile digeribilità, riesce però in molte scene a sublimare l’attenzione e a rendere seducente l’impatto, a dimostrazione di un talento certamente non comune ma che avrebbe bisogno di essere in qualche modo “compresso” e indirizzato meglio, certamente con più controllo e meno volontà di stupire a tutti i costi. Alla fine della visione, oltre all’insolito contrappunto musicale, le cose che rimangono più impresse nel ricordo, sono le scelte cromatiche assolutamente inusuali, i movimenti “inerti” dei corpi (“figure”, non “attori”, elementi scenici persino ripugnanti, non personaggi) che compongono spesso figurazioni quasi astratte, e la lunghissima sequenza della processione in ginocchio e incappucciato verso il santuario fra ali d i folla in preghiera (qualche assonanza con Viaggio in Italia di Rossellini?). Insomma un film un po’ “furbetto” che non riesce del tutto a nascondere l’artificiosità dell’impianto, ma capace comunque di inquietare e di sollecitare l’attenzione di chi avverte l’esistenza di qualità molto personali e specifiche che, una volta eliminati i “vizi” e le “velleità” tese a spiazzare e ottundere ancora troppo palesi, potrebbero precludere a risultati “intelligenti” e innovativi.i
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