Regia di Jim Jarmusch vedi scheda film
Tutto comincia con una lettera: una lettera rosa scritta con inchiostro rosso che una mano sconosciuta infila in una buchetta e che poi viaggia, su furgone, su nastro trasportatore, in aereo, fino alla postina che la getta davanti a una bella casa suburbana. All’interno, un uomo in tuta sta seduto sul divano e guarda in Tv un vecchio film dove Douglas Fairbanks fa Don Giovanni (Le ultime avventure di Don Giovanni, 1934, di Alexander Korda). Pochi minuti dopo la fidanzata, più giovane, lo lascia, esasperata: «Non voglio più stare con un Don Giovanni in decadenza». E l’uomo, Don, torna sul divano, guarda il film, si sdraia, si addormenta. Dissolvenza. Impassibile, come immerso nel vuoto, Bill Murray è la faccia più impenetrabile e solitaria che circola sullo schermo dai tempi di Buster Keaton. In Broken Flowers (come accadeva in Lost in Translation, ma anche prima, nei Tenenbaum o in Ricomincio da capo), pare che l’immobilità gli serva per schivare la vita, che continua a girargli intorno senza riuscire a catturarlo. Le donne vanno e vengono, le rose rosa in un vaso appassiscono, il silenzio inonda la casa. Luce, buio, sonno, veglia, divano, televisore. Solo il vicino di casa etiope (una famiglia, 5 bambini, 3 lavori, una passione per le investigazioni e per la Rete) riesce a forzarne l’apatia e a spedirlo alla ricerca della donna che può aver scritto la lettera rosa, quella che vent’anni prima è rimasta incinta, ha fatto un figlio suo e non gliel’ha mai detto. Partendo da una storia similissima a quella di Non bussare alla mia porta di Wenders, Jim Jarmusch va in direzione – in parte - opposta: laconico, sotterraneo e ironico come il suo protagonista, convinto (anche stilisticamente) che sia il caso – e talvolta il caos – a guidarci, non crede che fare i conti col passato ci aiuti granché a risolvere la nostra vita. Don, interrogato da un ragazzo che ha incontrato per strada sulla sua “filosofia”, dopo un attimo di stupore risponde: «Il passato è passato, il futuro non è ancora qui e quindi non lo posso controllare; e allora immagino che si tratti soltanto di questo, del presente». Da sempre tessitore delle immagini del presente, case, strade, figure su uno sfondo, siderali distanze comunicative e, al contrario, istintive, tacite comprensioni, Jarmusch registra con spassionata complicità il viaggio non risolutivo di Don, trasformandolo tra le righe anche in un viaggio attraverso un’America invisibile fatta di prefabbricati di prestigio, di analisti per animali e di anziani Hell’s Angels. La macchina da presa indugia, sottolinea la solitudine di Don, accetta i suoi tempi morti, i suoi sguardi perplessi; un paio di brevi zoom intensi quando legge la lettera e i consueti carrelli laterali, descrittivi, lungo le strade e le case. Il rosa, nelle sfumature più varie, intinge tutto. Colore per eccellenza femminile, non necessariamente svenevole o ingannevole, ma piuttosto segno di una tenerezza stinta ma non svanita, per tutte le donne che circondano Don, che Jarmusch ama molto, con il loro impasto di desideri irrisolti (Sharon Stone), malinconia appassita (Frances Conroy), disarmante eccentricità (Jessica Lange), rabbia non addomesticata (Tilda Swinton). I giovani, sullo sfondo, proseguono (come nel film di Wenders) per la loro strada. Dedicato a Jean Eustache perché, ha detto Jarmusch: «La maman et la putain è uno dei film più belli che abbia visto sulla mancanza di comunicazione uomo/donna».
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